I resti di una Sicilia post apocalittica, riconquistata dalla natura e senza più adulti, fanno da sfondo al viaggio verso un nuovo mondo al centro di Anna, la serie di Niccolò Ammaniti uscita su Sky nell’aprile del 2021 e riportata al Taormina Film Fest da Marco Müller proprio per le sue ambientazioni siciliane. Creata e diretta da Ammaniti dal suo romanzo omonimo edito da Einaudi, è stato il secondo progetto per la TV dello scrittore Premio Strega dopo Il Miracolo, uscita nel 2018.
«Realizzare e girare Anna è stato un lavoro immenso. È stata una macchina gigantesca». raccontava Ammaniti a Ciak ai tempi dell’uscita, non nascondendo la difficoltà di riuscire a portare sullo schermo quel mondo distrutto, devastato da un virus, abitato solo da bambini destinati a morire come gli adulti, costretti a sopravvivere in un nuovo ordine fatto di lotte tra piccoli e strani riti religiosi. Una realtà in cui la tredicenne Anna (l’esordiente Giulia Dragotto, di Palermo, scelta fra oltre duemila candidate) cerca di salvare il fratellino Astor. «Quando ho scritto Anna – diceva sempre Ammaniti – ero molto concentrato sulla protagonista e sulla sua parabola. Volevo raccontare l’evoluzione di una bambina che si trasforma in adolescente, si innamora, diventa quasi madre e poi vedova, ma con il passare degli anni sentivo che c’erano altri personaggi che mi sarebbe piaciuto raccontare. Con un romanzo non potevo farlo, avrei dovuto scrivere una versione più lunga che avrebbe richiesto tanto tempo. Non mi piaceva nemmeno l’idea di farne un film, perché non avrei avuto lo spazio necessario, così ho scelto la serie. È partita una macchina gigantesca, un lavoro molto impegnativo».
Questa l’intervista di Niccolò Ammaniti presente nel numero di Ciak aprile 2019:
Qual è stato l’aspetto più impegnativo?
«Molte cose. All’inizio avevo pensato che come per Il Miracolo avrei potuto dividere le riprese con altri registi, ma stavolta la narrazione era più complessa, per cui ho deciso di dirigere tutto da solo. L’altra grande scommessa è stata lavorare con i bambini, abbiamo fatto mesi di provini estenuanti, per fortuna mia moglie mi ha aiutato nella preparazione, perché con i bambini è importante che arrivino sul set pronti, poi non si riesce più a cambiare nulla. È stato molto complesso il lavoro di scenografia, dei costumi e del trucco. Molte scene le abbiamo girate in posti distanti tra loro e c’è stata anche la pandemia».
Lei ha scritto di un virus che uccideva gli adulti molti anni prima dell’arrivo del Covid. Sarà stanco di sentirselo ricordare.
«E dovrà sentirlo molto a lungo temo. In realtà io non volevo raccontare la storia del virus, ma quella di bambini che si ritrovano ad abitare in un mondo senza adulti. Era un’espansione di quello che avevo già fatto nei miei romanzi Io non ho paura e Io e te, continuando a raccontare le fasi dell’infanzia e dell’adolescenza, provando stavolta a escludere gli adulti. L’unico modo per farlo era un virus, perché eventi come un terremoto o una guerra avrebbero ucciso l’intera umanità».
I bambini in Anna muoiono appena crescono. Significa che per lei è meglio la morte dell’età adulta?
«Non è così semplice. Diventando adulti ci si inaridisce, anche se si conquistano altri obiettivi, ma quella forza della fantasia che domina la vita infantile perde la sua essenza e la sua purezza. È una fiammella che pochissimi riescono a tenere accesa andando avanti con gli anni».
Questi bambini che lei racconta sono buoni o cattivi?
«Non sono né buoni né cattivi, vivono in un mondo feroce, ma non sono convinto che siano così buoni come la tradizione storica vuole farci credere».
Possono vivere in un mondo senza adulti?
«No. La mia storia è un’iperbole, un paradosso narrativo».
C’è stata una Anna nella sua vita da ragazzino?
«No, non c’è stata. Io sono sempre stato molto simile ai miei protagonisti maschili, a parte quello di “Io non ho paura”, troppo coraggioso rispetto a me. Anna doveva essere una ragazzina, non un maschio, perché doveva prendersi cura del fratello, era interessante capire quanto una sorella potesse essere madre. Anna ha enorme un coraggio e una gran voglia di vedere oltre il buio, la sua è la storia con più dose di speranza che io abbia scritto finora».
È vero che dopo Anna smetterà con le storie di adolescenti?
«Non lo so, di certo lavorare con i bambini mi ha cambiato completamente. Avevano totale fiducia in me, per loro il set era un gioco, da adolescenti poi cambiano, la macchina diventa uno specchio in cui si guardano».
Dirigerebbe la storia di qualcun altro?
«Dovrebbe essere una storia che mi pia- ce veramente, non credo, ma mai dire mai. Intanto devo capire se continuare a fare questo lavoro o ritornare a fare scrittore».