Si è da poco concluso al Cinema Farnese di Roma il 22mo Asian Film Festival, e tra i vincitori figurano anche i lungometraggi Ma-Cry of Silence di The Maw Naing (Premio al film più originale ex aequo con Tale of the Land di Loeloe Hendra Komara) e Pierce di Nelicia Low (Premio alle performance degli interpreti protagonisti Yu-Ning Tsao e Hsiu-Fiu Liu). Entrambi i titoli sono stati prodotti dal terzo e ultimo ospite di quest’edizione, il singaporiano Jeremy Chua, che abbiamo intervistato.
«Vengo dalla sceneggiatura cinematografica, quindi seguo molto da vicino il processo di scrittura: è importante perciò che si abbiano idee simili, una visione simile del mondo e delle cose che ci fanno arrabbiare», ci spiega il produttore, la cui Potocol è una compagnia in cerca di registi dall’Asia, e segnatamente dal Sud-Est asiatico, che raccontino storie capaci di avere un respiro internazionale (molto forte in particolare l’interesse di Chua e del suo team per gli scambi produttivi e creativi con l’Europa), risultando però anche non banali nel modo di narrarle: «Mi piacciono quel tipo di film dove credi di conoscere l’argomento ma alla fine ti rendi conto di non averlo del tutto capito. Penso che questa specie di incertezza esistenziale è ciò che mi piace del cinema. Se un regista è troppo chiaro, se tutto è troppo ovvio, mi annoio molto».
Ed è davvero un dramma che non mette a proprio agio il pubblico ma parla al mondo intero, sperando di scuoterlo dalla sua indifferenza, Ma-Cry of Silence, che ha visto Chua misurarsi con una produzione del Myanmar: «Da circa 5 o 6 anni la Film Commission di Singapore ha avviato un programma di finanziamento per supportare registi del Sud-Est asiatico. Era la prima volta che un produttore di Singapore poteva essere coinvolto in progetti dal Sud-Est asiatico con una sovvenzione statale, prima lo avevamo fatto solo con capitali privati. Mentre il programma di finanziamento prendeva il via, sono accadute molte cose: si è aperto anche il Myanmar, dove finalmente era arrivato il tempo della democrazia, e il regista The Maw Naing stava viaggiando molto per promuovere la sua sceneggiatura. La storia era ispirata a fatti realmente accaduti.
Ovvero, lo sciopero inedito e coraggioso di un gruppo di operaie nel 2012: «In Myanmar, dove hanno avuto 50 anni di governo dei militari, non avevano mai sentito nominare la parola “sciopero”, era qualcosa di davvero nuovo». E pericoloso, per chi sceglie di portarlo avanti rivendicando i propri diritti: come si vede nel film, ambientato sullo sfondo delle sistematiche violenze del governo autoritario al potere (che includono arresti, uccisioni e distruzione di interi villaggi) contro gli oppositori politici. Provocando lo sfollamento forzato delle protagoniste, che trovano lavoro in una fabbrica tessile dove sono tiranneggiate, abusate e spesso non pagate dai supervisori. Fino a che alcune di loro non decidono di ribellarsi per ottenere giustizia.

«Penso che le persone siano state molto commosse dal modo in cui racconta questa rivolta civile», riflette Chua, che ricorda le numerose difficoltà affrontate per portare a compimento il film: «Il progetto è stato scritto e sviluppato dal 2017 al 2020, e proprio quando stavamo iniziando a girare c’è stato il nuovo golpe militare in Myanmar, oltre alla pandemia di Covid. I permessi per girare sono venuti meno. Abbiamo dovuto spostare spesso la scena dall’esterno all’interno, per nasconderci dalla polizia».
Uno degli scopi di Ma-Cry of Silence, allora, era «dare il senso che questa violenza in Myanmar è qualcosa di ciclico, anche se a differenza dell’Ucraina o della Palestina non è percepita come politicamente urgente a livello internazionale, non ha un’immediata rilevanza economica. Quindi è una storia che scorre semplicemente fra le notizie».
E la situazione, come sottolinea Chua, è tuttora critica, anche per chi fa cinema: «Se sei un artista che parla di politica, il più delle volte vieni imprigionato. C’è stata una regista e produttrice a cui, per il suo supporto agli attivisti, hanno spezzato le dita. Sembrano cose del passato, ma accade ancora oggi. Il film ci ricorda che la guerra civile non è finita. E Singapore non gioca un ruolo per fermarla. Abbiamo rapporti di affari con il Myanmar, vendiamo strumenti per le telecomunicazioni, vendiamo armi. Quindi volevamo anche ricordare ai singaporiani che facciamo parte di questo mondo, ci piaccia o no».
Diverso il caso di Pierce, la cui regista, Nelicia Low, ha studiato alla Columbia University di New York, offrendo a Chua l’occasione di misurarsi con «una narrazione più classica, un’impostazione cinematografica più “americana”», nella forma di un dramma-thriller nel mondo della scherma, che però tocca anche il delicato tema della neurodivergenza. Richiamandosi in parte all’autobiografia di Low, il cui fratello è nello spettro autistico.
«Ho avvertito che la sua storia era davvero universale», specifica il produttore, «ma l’angolazione attraverso cui trattarla era peculiare, ponendosi la domanda: che succede se questo amore fraterno è per qualcuno che è propenso a uccidere?». Lo stesso Chua, del resto, era toccato personalmente dall’argomento: «Negli anni ’90 in Asia il suicidio era la risposta principale alla depressione e al disagio psicologico. Avevo una cugina con una neurodivergenza che si è tolta la vita, quindi mi sono sentito molto vicino a questo tipo di dramma. Il disagio delle persone neuroatipiche viene molto frainteso».
Pierce si è avvalso anche del regista statunitense Eric Mendelsohn (3 Backyards) come collaboratore al montaggio: «La sceneggiatura poi», prosegue Chua, «era molto buona, e abbiamo avuto molti finanziamenti, non solo da Singapore ma anche da Taiwan e dalla Polonia. Il problema è che abbiamo girato durante il Covid, e questo ha creato problemi».
Ma l’altra sfida recente del produttore è stata dirigere il Singapore International Film Festival: «È stata un’esperienza di un anno, totalmente diversa da quella con la casa di produzione indipendente, perché in quest’ultima devi correggere ogni giorno i piani, in base ai mutamenti nell’industria, alle idee del regista, non sei mai fermo, come essere sempre nell’oceano. Ma in una realtà come quella del festival, dove c’è uno staff, ci sono i consiglieri di amministrazione, ogni cambiamento richiede molto tempo. Questo mi ha fatto scoprire la difficoltà di pensare artisticamente in una realtà così strutturata».
Tanto più che Chua non si è voluto porre come il diligente esecutore di una formula prestabilita: «Al contrario, ponevo domande ai miei colleghi, del tipo: perché c’è questa sezione? Non c’è un modo migliore di fare quella cosa? È stato un anno passato a chiedere perché. Come quando leggi la sceneggiatura di un film, ti piace capire cosa il regista sta provando a dire e per quale motivo. Ho usato lo stesso approccio».
Non può dirsi perciò ancora pienamente soddisfatto dei risultati raggiunti alla guida della manifestazione, e però l’obettivo di fondo è già molto chiaro: «Diventare un punto di riferimento, in modo che attraverso il festival il mondo possa notare chi sono i talenti del Sud-Est asiatico di cui c’è bisogno, e chi sono i registi pronti a spostarsi in un contesto più grande. Proviamo insomma a collocarci a metà strada, per aiutare i filmmaker a fare un salto di livello».