Noah Falstein e l’evoluzione videoludica: da Lucasfilm all’Intelligenza Artificiale

Noah Falstein, veterano dell’industria videoludica, tra i primi dieci dipendenti di Lucasfilm Games negli anni ‘80, ha aperto la sessione di panel dell’ultima giornata del Cartoon on the Bay, raccontando l’evoluzione del mondo videoludico, dai suoi anni pionieristici fino alle più innovative tecnologie odierne.

Impossibile non cominciare ricordando gli inizi: entrare in Lucasfilm Games nel 1984 fu per lui un’esperienza incredibile, un sogno che si realizzava. Erano gli anni in cui uscivano i primi film di Star Wars e il primo set di Indiana Jones era ancora in lavorazione, e lui si ritrovava a lavorare a stretto contatto con figure come George Lucas e persino Steven Spielberg. All’epoca la divisione giochi faceva parte della sezione informatica della Lucasfilm, lo stesso nucleo che avrebbe poi dato vita alla Pixar. Tra i colleghi c’erano persone come Ed Catmull, uno dei futuri fondatori della Pixar e suo stesso esaminatore al colloquio d’assunzione.

Falstein fu tra i primi otto dipendenti, e racconta quanto l’ambiente fosse straordinario e anche un po’ surreale: basti pensare che solo per la realizzazione del manuale di Rescue on Fractalus! vennero spesi 25.000 dollari, una cifra enorme all’epoca, più di quanto molti studi spendevano per un intero videogioco. Quel periodo fu una vera fucina creativa, in cui cinema, animazione e tecnologia si fondevano in modi del tutto nuovi. «La biblioteca dello Skywalker Ranch è sicuramente la stanza più bella che abbia mai avuto come luogo di lavoro. C’è una cupola di vetro colorato in cima, c’erano scale di legno di sequoia, un dipinto originale di Maxfield Parrish sopra il camino e c’erano anche dei marmi italiani. Possiamo dire che c’era un po’ d’Italia allo Skywalker Ranch».

Una foto della biblioteca dello Skywalker Ranch

Nel giro di pochi anni, Falstein si trovò a lavorare su tre giochi di simulazione militare: Koronis RiftPHM Pegasus e Battlehawks 1942, ma è con il franchise di Indiana Jones che la sua carriera ottenne un’impennata. Nel 1989 viene pubblicata l’avventura grafica Indiana Jones and the Last Crusade: The Graphic Adventure, videogioco ispirato all’omonimo film cui mise mano anche il creatore di Monkey Island Ron Gilbert. Il successo del gioco spinse la LucasArts a proseguire su questa strada e nel 1992 vide luce uno dei suoi progetti più amati, Indiana Jones and the Fate of Atlantis, frutto della collaborazione con Hal Barwood, sceneggiatore cinematografico e stretto collaboratore di Spielberg e Lucas. Insieme co-scrissero e co-progettarono il gioco, partendo completamente da zero: a differenza del titolo precedente, questa volta non c’era un film da cui attingere.

«Ci proposero di realizzare il gioco su una vecchia sceneggiatura scartata ma l’idea non ci piaceva molto. Volevamo una storia originale e Hal aveva una grande esperienza come sceneggiatore». Una delle cose più difficili – racconta Falstein – era capire cosa stesse cercando Indy. «Volevamo qualcosa che fosse riconoscibile. Sia l’Arca dell’Alleanza sia il Santo Graal erano state idee eccellenti e noi dovevamo trovare qualcosa di altrettanto interessante». La scelta si ridusse tra Excalibur, la spada di Re Artù e il mito di Atlantide. Vinse quest’ultimo. «Dovevamo dare a Indy un motivo per andare in giro per il mondo e il quel mito era perfetto. Esistevano teorie su dove fosse effettivamente localizzata, se nel centro dell’Atlantico o in qualche parte del Mediterraneo, e gli indizi si trovavano in musei sparsi per il mondo. Tutti elementi perfetti per un gioco d’avventura»

Innovativo fu anche l’approccio narrativo: idearono tre percorsi alternativi nel gioco, ciascuno legato a una sfaccettatura del personaggio di Indiana Jones — lo studioso, l’uomo d’azione, e il suo lato più relazionale. Volevano un personaggio femminile forte, che affiancasse Indy alla pari. Il gioco ebbe un impatto così forte da diventare anche uno strumento educativo: molti giocatori europei raccontano di aver imparato l’inglese giocando a Fate of Atlantis con dizionario alla mano.

Tra gli argomenti trattati nel panel, anche quello dell‘intelligenza artificiale, tema centrale di questa edizione del Cartoons on the Bay. Falstein ha sottolineato quanto l’IA sia ormai centrale nello sviluppo dei videogiochi. Collabora oggi con diverse realtà e tutte, in un modo o nell’altro, stanno integrando strumenti di intelligenza artificiale. «Tutti i clienti con i quali sto lavorando attualmente usano l’intelligenza artificiale, ognuno di loro in un modo diverso. È sorprendente quanto sia potente, entusiasmante e spaventosa la tecnologia». Citando esempi personali e confronti con leggende del settore come Will Wright (The Sims) e Sid Meier (Civilization), Falstein condivide l’idea che i giochi continueranno a essere un terreno fertile per spingere nuove tecnologie e che l’intelligenza artificiale rappresenterà un punto di svolta per l’intero settore, in quanto in grado di generare contenuti, supportare la scrittura, ma soprattutto creare personaggi credibili e reattivi, portando l’interattività a un nuovo livello.

Laddove però in ambiti critici l’IA deve essere infallibile («se non funziona perfettamente nel controllo del traffico aereo, è un disastro», nei giochi può anche sbagliare e dare vita a situazioni impreviste, persino geniali. E proprio per la narrazione interattiva, Falstein crede che l’IA possa rappresentare uno strumento rivoluzionario: capace di improvvisare, di sorprendere, di raccontare storie su misura, in tempo reale, per ogni singolo giocatore.

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