Nicola Guaglianone agli INCONTRI IDM: «Ora ci sono tanti autori, ma sono pagati poco»

«Ero troppo timido per diventare attore e troppo pigro per diventare regista», racconta lo sceneggiatore Nicola Guaglianone, che il 27 aprile ha aperto le conferenze di INCONTRI #11 al Kurhaus di Merano, subito dopo i saluti introduttivi della Responsabile di IDM Film Commission Südtirol, Birgit Oberkofler. Guaglianone, intervistato dalla giornalista e critica cinematografica Alessandra De Luca, ha ripercorso le tappe della sua carriera tra cinema e tv, condividendo le sue riflessioni su luci e ombre dell’industria audiovisiva italiana oggi. E, fin dai primi passi, il segreto per lui è stato quello che oggi continua a ripetere come massima ai suoi allievi: «Prendi la tua fragilità e trasformala nel tuo superpotere». 

Il superpotere, nel suo caso, è la capacità di «reimmaginare la realtà» scrivendo storie da trasformare in film. Come quello che l’ha lanciato, Lo chiamavano Jeeg Robot (2015), o il più recente Freaks Out (2021), diretti entrambi dall’amico Gabriele Mainetti. Con cui è riuscito a trovare «l’equilibrio tra due differenti mondi, l’immaginario americano e il cinema italiano». Non a caso, la definizione che dà di Jeeg Robot è «fantascienza pasoliniana».

E certo non fu facile all’epoca trovare un distributore che credesse in quella scommessa. Oggi invece, afferma «qualcosa sta cambiando», e, tra il tax credit e le grandi piattaforme estere come Netflix e Amazon che investono in Italia, per certi versi siamo in una sorta di «età dell’oro». Ma le criticità ci sono: in particolare, Guaglianone vede «due differenti problemi, uno culturale, uno economico». Il primo, rappresentato dal pericolo di appiattimento culturale, di «perdere le proprie radici» a vantaggio di una globalizzazione che livella estetiche, idee, specificità locali. Così, se il cinema italiano degli anni ’60 aveva restituito un’immagine tuttora riconoscibile del proprio Paese e della propria epoca, «nei prossimi vent’anni chi guardasse uno show scritto ora non potrà dire che è stato scritto vent’anni fa».

Riguardo alla questione economica, Guaglianone sottolinea che «ora ci sono tanti autori ma sono pagati poco, devono scrivere tante serie allo stesso tempo e la qualità non è la stessa», in un’ottica che privilegia invece la quantità. Ma «se vuoi un buono show, devi pagare di più gli autori». A tale proposito è importante che questi ultimi facciano rete per rivendicare e tutelare i propri interessi. Per questo, spiega, «abbiamo bisogno di una sola grande casa per gli sceneggiatori italiani», superando anche «la fusione tra registi e sceneggiatori: dobbiamo fare le nostre battaglie insieme ma loro hanno determinati problemi, noi altri». Altro limite del contesto italiano, secondo Guaglianone, l’assenza della figura dello showrunner, tipica della serialità d’Oltreoceano, e che da noi generalmente viene surrogata «dal produttore o dal regista», quando non da un creativo già affermatosi in altri media, come Roberto Saviano o Zerocalcare.

Ai produttori, inoltre, l’intervistato raccomanda di «avere visione e passione», giacché per chi fa cinema «avere un buon produttore è come avere un padre adottivo». Lo stesso Guaglianone, d’altronde, si è cimentato in questo ruolo, con la sua Miyagi Entertainment. Che, nel caso de La Befana vien di notte II – Le origini, gli ha permesso di contribuire attivamente alla realizzazione del film in ogni suo passaggio, regia compresa: «Ho lavorato in pre-produzione, ho scelto il cast, la regista, ho passato tutti i giorni sul set, un’esperienza nuova per me, sono stato regista di seconda unità». Un’esperienza che lo porta più vicino al fatidico passaggio dietro la macchina da presa. Che non vorrebbe avvenisse con una commedia, genere «molto difficile». In merito ricorda la lezione del suo maestro, Leo Benvenuti: «Scrivere una commedia è qualcosa che ha a che fare con l’amore. Tutti vogliono essere amati, ma la cosa più difficile è amare gli altri. E quando scrivi una commedia devi amare gli altri».

Tra i film e gli autori che come spettatore preferisce, cita il cinema coreano, ma anche Martin Scorsese e Quentin Tarantino. Tra i suoi temi favoriti (anche come autore), «la promessa della ricchezza e la ricchezza che non è arrivata», una chimera ereditata dall’epoca in cui è cresciuto, gli anni ’80 dell’«edonismo reaganiano». Non per nulla il protagonista de Lo chiamavano Jeeg Robot «ha i superpoteri ma la prima cosa che fa è sradicare un ATM». Nelle storie di Guaglianone possiamo trovare allora «la ricerca di qualcosa che cambi la tua vita ma si rivela una finzione, perché gli anni ’80 sono stati un’epoca di finzioni». E troviamo protagonisti alle prese con diversità che li rendono emarginati, un punto di vista al quale ha contribuito anche l’esperienza di Guaglianone (obiettore di coscienza) nei servizi sociali.

E, forse, anche il cinema italiano (e non solo) che faticosamente si rialza dalla pandemia, potrebbe e dovrebbe trasformare la sua fragilità in forza, o perlomeno in occasione di rinnovamento. Per Guaglianone infatti, oggi che «abbiamo tanti film e vengono proiettati per un paio di giorni» e che persino Indivisibili (il film di Edoardo De Angelis con cui ha vinto il David di Donatello alla sceneggiatura) se venisse prodotto adesso «andrebbe direttamente su piattaforma», dobbiamo «ripensare la sala», trasformandola in un luogo di socialità a trecentosessanta gradi. Posto che rimane sempre valida una confessione fatta a Guaglianone da Terry Gilliam: «Quando vedo un film in sala i personaggi sono più grandi di me, quando lo guardo sul mio computer io sono più grande dei personaggi, ed è totalmente diverso».

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