Un mondo (di mondi) da ascoltare: il cinema di Medio Oriente e Nord Africa agli INCONTRI

Un viaggio nella varietà e complessità del cinema di Medio Oriente e Nord Africa (MENA) è stato quello che ha concluso la giornata degli INCONTRI di IDM Film Commissione Südtirol – Alto Adige, giovedì 30 marzo al Kurhaus di Merano. Palestina, Egitto, Sudan e Libano i territori maggiormente approfonditi, con l’aiuto degli ospiti che si sono confrontati nella discussione moderata da Ayman El Amir, produttore e script consultant di Felucca Films, e Vincenzo Bugno, Responsabile del World Cinema Fund alla Berlinale e Direttore del Bolzano Film Festival Bozen.

E senz’altro è emersa con particolare forza, a dispetto di ogni facile generalizzazione, la consapevolezza che sia «difficile parlare di pubblico arabo e pubblico europeo: sono realtà stratificate al loro interno», come ha rimarcato l’egiziana l’egiziana Marianne Khoury, produttrice per Misr International Films, fondatrice di Dashur Residence e attiva nel settore audiovisivo da oltre quarant’anni, anche come collaboratrice di lunga data del grande regista Youssef Chahine.

Proprio l’Egitto costituisce un caso particolarmente specifico nella regione messa a fuoco: il Paese in questione infatti, spiega Khury, è caratterizzato da un vasto pubblico ma, in proporzione, da un’esigua quantità di produzioni. E, in particolare, «per un film egiziano che non né mainstream né strettamente d’autore è molto difficile trovare posto». Inoltre, «per i film indipendenti abbiamo un grande problema con la censura».

D’altro canto, ci sono realtà dove il comparto cinematografico locale è pressoché inesistente, come il Sudan da cui proviene Amjad Abu Alala, che nel 2019 ha vinto il Leone del futuro alla Mostra del Cinema di Venezia col suo lungometraggio You Will Die at Twenty (premiato anche il successivo Goodbye Julia), dando finalmente un segnale di vita del settore in un Paese che «non mette un penny per il cinema».

L’assenza di finanziamenti per il cinema è un problema molto sentito anche nella Palestina raccontataci da Hanna Atallah, che nel 2014 ha fondato l’organizzazione non profit Filmlab Palestine, proprio con lo scopo di promuovere la cultura cinematografica e lo scambio delle relative competenze nella sua terra, creando locale e internazionale di professionisti palestinesi: «Quando non hai il tuo fondo locale non è facile», dice Atallah, considerato anche che «l’ottanta per cento dei film palestinesi sono politici».

«Abbiamo visibilità ma non abbiamo il pubblico», spiega a sua volta Georges Schourcair, fondatore e amministratore delegato di Abbout Productions (attiva dal 1998), tra i cui titoli figurano Costa Brava, Lebanon di Mounia Akl, The Sea Ahead di Ely Dagher, Memory Box di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige e il documentario We Are From There di Wissam Tanios. In effetti, il cinema libanese sta attraversando una fase di crescita grazie, tra le alter cose, alle co-produzioni con l’Europa, che Schourcair ritiene essere state attraversate da un certo progresso anche nella qualità delle sceneggiature, permettendo agli autori di far meglio sentire la propria voce: «Devi avere un buono script», insiste, perché «quando è buono, puoi andare dove vuoi».

Il fenomeno delle coproduzioni Europa-MENA sembra tuttavia essere fatto ancora di luci e ombre, come ha evidenziato in particolare Amal Ramsis, regista e produttrice egiziana (fondatrice della Women Filmmakers Caravan) secondo la quale il problema delle co-produzione sta spesso nel loro rivolgersi più al pubblico europeo che a quello arabo, con la relativa difficoltà a conciliare l’una e l’altra dimensione: «Un conto è la lingua per rivolgersi alle persone del mio Paese, un conto la mia lingua per rivolgersi al pubblico di altri Paesi».

Ramsis, allora, ritiene sia importante per i soggetti europei «assumersi dei rischi e dare fiducia al regista e ai produttori del posto», rispettandone la prospettiva senza dover necessariamente raccontare «storie che il mercato europeo è abituato a sentire» perché «qualcosa che non sei abituato a vedere è qualcosa di più rischioso, ma anche di più originale».

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