Il mondo che non c’è…a Venezia

Sarà vero che il ritratto del mondo offerto dagli autori di Venezia 79 ruota intorno all’angoscia dell’identità e alla visione dell’apocalisse, ma viene da chiedersi: non sarà che il cinema in Mostra riflette soprattutto il pensiero occidentale e rischia di perdere ciò che fermenta lontano da Hollywood e Cinecittà? Da un’occhiata trasversale al programma di tutte le sezioni si ricavano sensazioni contraddittorie: l’argentino Santiago Mitre dell’appassionato Argentina 1985 non ha tempo per cercare l’identità sua e della sua nazione; gli algerini  Adila Bendimerad e Damien Ounouri con La dernière reine fanno i conti con la storia dimenticata più che con l’ossessione del futuro; la bosniaca Teona Mitevska (The happiest Man in the World) sente soprattutto l’urgenza del presente e il giapponese Koji Fukada in Love Life affronta l’esibizione del dolore, mestiere difficile nella cultura espressiva orientale. Tutti in un modo o nell’altro sono costretti a confrontarsi con il tema dell’identità ma, a differenza di molti occidentali, non ne fanno un fatto privato, bensì culturale e universale. Non serve venire dall’altra parte del pianeta per cogliere l’urgenza di non guardare solo al proprio ombelico e ai nostri rovelli da civiltà in decadenza. Basta avvertire il respiro del mondo come fanno Alice Diop (Saint Omer) o Salvatore Mereu (Bentu) in due delle opere a mio parere più scopertamente artistiche e intense del programma.  

La sensazione è che Venezia, come gli altri grandi festival mondiali, debba fare i conti con la logica del marketing e dello star system: fatalmente, ciò che non è cinema rilucente e pre-digerito dalle campagne stampa non esiste sui giornali, si consuma nell’emozionate momento degli applausi e della scoperta, ma rimarrà invisibile alla maggioranza degli spettatori. Certo, per i beniamini delle passerelle cinefile – Lav Diaz, Sergei Loznitsa, Jafar Panahi, gli inevitabili cineasti ucraini e iraniani di questa stagione – una visibilità ci sarà. Ma degli straordinari sino-giapponesi di Stonewalling si sentirà parlare in una ”breve” solo se vinceranno premi. Non è colpa di Alberto Barbera, di Gaia Furrer, di Beatrice Fiorentino. E’colpa della nostra pigrizia di spettatori che generiamo una falsa idea della curiosità culturale. Ma anche questa è la stampa, bellezza! 

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