La Venezia delle identità in crisi e delle domande sul futuro

Quella appena iniziata non è una Venezia facile, per capirlo bastano le trame dei film in concorso, un trionfo di famiglie esplose o ricucite alla meglio, di identità di genere rimesse in discussione, di padri obesi che tentano di riconciliarsi con la figlia adolescente (The Whale di Darren Aronofsky) o di ex-mogli che riappaiono con erede problematico al seguito mandando a rotoli il nuovo ménage del padre. Come accade in The Son di Florian Zeller, l’autore di The Father. Anche se di rapporti tra genitori e figli, reali o virtuali, viventi o morenti, vacillanti o catartici, trabocca l’intero cartellone della Mostra. Come se il drammatico trapasso d’epoca che stiamo vivendo imponesse di tornare alle radici, interrogarsi sui legami di sangue e d’amore, affondare il bisturi in quel grumo di contraddizioni che chiamiamo identità. 

Non è una Venezia conciliante: Alberto Barbera ha il grande merito di aver detto chiaro e forte quanto la stampa, Ciak compreso, denuncia da mesi. Ovvero il rapporto sempre più perverso, in Italia, tra produzione e consumo. In sintesi: si girano sempre più film ma se ne vedono sempre di meno perché molti di questi film semplicemente non meritano di essere visti. Sono abborracciati, sembrano nati più per incassare gli aiuti alla produzione che per conquistare un pubblico che infatti si rivolge altrove. E questo crea un circolo vizioso esiziale che i grandi festival hanno il dovere di combattere. 

Non è infine una Venezia celebrativa e ripiegata su un passato glorioso. Il cinema è stato l’arte del ’900 ma nel nuovo millennio sta cambiando tutto. Queste famiglie devastate, questi figli problematici, parlano di un’eredità difficile, un passaggio del testimone necessario ma ancora confuso. Ce lo ricordano i 4 titoli Netflix in Concorso, cifra senza precedenti. Anche se è difficile capire cosa lega l’adattamento del romanzo di Don DeLillo firmato da Noah Baumbach (White Noise), la tormentata Marilyn di Andrew Dominik, ispirata invece a Joyce Carol Oates (Blonde), il giornalista in crisi di Iñárritu (Bardo, falsa cronica de unas cuantas verdades) o Athena di Romain Gavras, sulla carta vicinissimo a Les misérables del suo sodale Ladj Ly, a cui vanno aggiunti gli amanti cannibali di Luca Guadagnino (Bones and All, produzione Freemantle-MGM cioè Amazon). A unire film così diversi sono forse solo i (grandi) nomi dei registi. I colossi dello streaming hanno bisogno dei festival, lo sappiamo. Magari i festival potrebbero chiedere in cambio una visibilità diversa sui menu sempre così confusi delle piattaforme, oltre che uscite in sala meno evanescenti.

In tutto questo l’Italia a Venezia si gioca molto, se non tutto, con cinque autori molto ben assortiti per età e temperamento. Il maestro Gianni Amelio promette bene con Il signore delle formiche (sul caso Braibanti, storico processo per plagio nell’Italia anni ’60 riscoperto di recente anche da un bel documentario di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese). La dotatissima Susanna Nicchiarelli scopre l’altra metà di San Francesco con Chiara. Emanuele Crialese, altro grande talento che avevamo un po’ perso di vista, torna agli anni ’70 con il semiautobiografico L’immensità. Mentre Andrea Pallaoro (Monica) e Guadagnino confermano la loro vocazione internazionale (sarebbe bello se ogni tanto lavorassero anche in Italia).

Poi magari vince il sommo iraniano Jafar Panahi (No Bears), attualmente purtroppo in prigione, la Medea senegalese di Alice Diop (Saint Omer), o la post-famiglia del grande giapponese Koji Fukada, tutto da scoprire in Italia (Love Life), o l’attesissimo The Banshees of Inisherin di Martin McDonagh, l’autore di In Bruges e Tre manifesti a Ebbing, Missouri. È il bello di Venezia. L’essenziale, non sempre succede, è che vinca il migliore.

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