Storia della Mostra del Cinema di Venezia

Continua il nostro racconto della Mostra del Cinema di Venezia

Gli anni ’80 e ’90

Il periodo dal 1979 al 1997, prima della nuova riforma che muterà ancora il volto della Biennale, vede la sfida dei vari direttori della Mostra di Venezia per restituirle visibilità internazionale. Un’impresa riuscita, malgrado scossoni politici, problemi finanziari e organizzativi. Fondamentali si rivelano due grandi registi del nostro cinema che, rispettivamente negli anni ’80 e ’90, assumono la guida della manifestazione, Carlo Lizzani e Gillo Pontecorvo. Entrambi storici cineasti e militanti comunisti ma attenti ai cambiamenti in atto dentro e fuori l’industria filmica, carismatici ma in grado di valorizzare i propri collaboratori.

Il primo, al timone dal ’79 al 1982, avvia un processo che, scrive Gian Piero Brunetta nel suo libro sulla Mostra del Cinema, vedrà questa «riconquistare il suo pubblico, soprattutto nazionale, e registrerà il romanzo di formazione di una nuova generazione di critici e organizzatori culturali». A coadiuvare Lizzani, infatti, abbiamo tra gli altri Giorgio Gosetti, Paolo Mereghetti, Enrico Ghezzi, Adriano Aprà ed Enzo Ungari, forte della recente esperienza dell’Estate Romana, di cui il neodirettore tiene conto nel suo progetto di rilancio.

A Ungari è affidata l’Officina Veneziana, spazio (che avvia una fioritura di nuove sezioni, alcune rivolte espressamente ai giovani) dedicato a “chicche” che entusiasmano cinefili e conquistano il pubblico. Lizzani inoltre anticipa e intercetta fenomeni come il peso sempre maggiore della serialità televisiva nell’immaginario. E infatti molti grandi eventi della Mostra di questi anni riguarderanno opere ibride tra film-fiume e proto-miniserie moderne: da Berlin Alexanderplatz di Fassbinder (1980) a Il Regno di Lars Von Trier negli anni ’90, passando per i due Heimat (1984 e 1992) di Edgar Reitz e Il Decalogo (1989) di Krzysztof Kieślowski.

Dal 1980 la Mostra riprende inoltre ad assegnare i premi, cominciando dal Leone d’oro ex aequo di Atlantic City (di Louis Malle, che vincerà nuovamente con Arrivederci ragazzi nel 1987) e Gloria di John Cassavetes, primo statunitense a ottenere il riconoscimento (seguirà Robert Altman con America oggi nel 1993).

Non a caso, in questi anni tornano, pur tra diffidenze e polemiche, i film hollywoodiani, blockbuster compresi: titoli come L’impero colpisce ancora (1980), Il ritorno dello Jedi e Flashdance (1983), Blade Runner e E.T. (1982), Ritorno al futuro (1985), Aliens (1986), Jurassic Park(1993), Forrest Gump(1994), Independence Day (1996) e la saga di Indiana Jones, spesso fuori concorso in sezioni come Mezzogiorno/Mezzanotte, Venezia Notte e Venezia Giovani. Più longeva si rivela la Settimana Internazionale della Critica, nata nel 1984 su iniziativa del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI e dedicata alle opere prime e seconde.

Vediamo passi avanti per il riconoscimento dei talenti femminili: Margarethe von Trotta nel 1981 è la prima regista a vincere il Leone d’oro (per Anni di piombo). Il maggiore scandalo dell’epoca invece è L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese, che infiamma l’edizione del 1988, fra pressioni e attacchi politici e mediatici, il rifiuto di Franco Zeffirelli di partecipare alla Mostra e l’intervento del Procuratore della Repubblica di Venezia, che dà il suo benestare alla pellicola dopo averla vagliata con altri otto magistrati.

Tra le scoperte, le nuove generazioni di talenti dall’Oriente: i taiwanesi Hou Hsiao-hsien (Leone d’oro 1989 per Città dolente) e Tsai Ming-liang (Vive l’amour, 1994, vincitore ex aequo con Prima della pioggia di Milcho Manchevski), il cinese Zhang Yimou (Leone d’argento 1991 con Lanterne rosse e Leone d’oro 1992 con La storia di Qiu Ju), il vietnamita Tran Anh Hung con Cyclo e il giapponese Takeshi Kitano con Hana-bi (Leone d’oro rispettivamente nel ’95 e nel ’97). Ma si fanno notare al Lido anche Pedro Almodóvar (Donne sull’orlo di una crisi di nervi, 1988), Spike Lee (Mo’ Better Blues, 1990) e Gus Van Sant (Belli e dannati, 1991). Anche se non sempre convincono i verdetti dei giurati, che premiano Rosencrantz e Guildenstern sono morti nell’anno di Quei bravi ragazzi e, soprattutto, di Un angelo alla mia tavola, film-rivelazione di Jane Campion.

Per l’Italia, si affermano nuovi importanti autori, da Nanni Moretti (Premio speciale con Sogni d’oro nel 1981 e successo fuori concorso con Palombella rossa nel 1989) a Mario Martone (Leone d’argento col debutto Morte di un matematico napoletano nel ’92) e Gianni Amelio (Leone d’oro 1998 per Così ridevano), mentre si celebrano i maestri riconosciuti come Citto Maselli (Leone d’argento 1987 con Storia d’amore, che lancia la Coppa Volpi Valeria Golino) ed Ermanno Olmi, che si aggiudica il premio maggiore con La leggenda del santo bevitore (1988).

Dopo il ritorno alla direzione di Gian Luigi Rondi (1983-1986, poi Presidente della Biennale dal ’93 al ’97) e i cinque anni di Guglielmo Biraghi (fino al 1991), spetta a Pontecorvo (1992-1996) traghettare la Mostra nel difficile passaggio dell’Italia dalla Prima alla Seconda Repubblica. E se non avrà fortuna il suo tentativo di riunire il cinema mondiale intorno a nuove organizzazioni che valorizzino la libertà creativa (l’Unione Mondiale degli Autori Cinematografici e l’Alta Corte Internazionale per la Difesa della Libertà d’Espressione), nondimeno, grazie anche al supporto di collaboratori come Ofelia Patti e Giorgio Gosetti (vicedirettore della Mostra nel 1996), mantiene la manifestazione aperta alle proposte più diverse.

Così, mentre sia il cinema che la Biennale festeggiano un secolo di vita, il Festival veneziano è ormai tornato a rivaleggiare con Cannes. Sarà infine Felice Laudadio a tenere le redini della Mostra nel 1997-1998, segnato dalla nuova trasformazione della Biennale.

Gli anni 1998-2009

La Mostra di Venezia si affaccia al nuovo millennio con la riforma del 1998, che trasforma la Biennale in un soggetto giuridico di diritto privato, di cui il Ministero dei beni e attività culturali nomina il presidente: il primo del nuovo corso è Paolo Baratta, che resterà alla guida dell’istituzione fino al 2001 e poi dal 2008 al 2019. E, dopo l’ultima edizione a cura di Felice Laudadio (dove abbiamo, tra le altre cose, Salvate il soldato Ryan in apertura e una nutrita schiera di divi, tra cui Catherine Deneuve, Coppa Volpi di quest’anno per Place Vendôme), inizia per la Mostra l’epoca dei direttori Alberto Barbera (dal 1999 al 2001 e poi dal 2012) e Marco Müller (dal 2004 al 2011).

A loro, scrive Gian Piero Brunetta nel suo libro sulla storia della manifestazione, «spetta il compito e la responsabilità di traghettare la Mostra nella nuova dimensione del cinema digitale, di interpretare, con giusto tempismo, i mutamenti del mercato, dei modi di produzione e dei comportamenti del pubblico. E di intercettare il futuro senza rinunciare a far rivivere la memoria ultracentenaria del cinema».

Per il suo primo mandato, Barbera, già co-fondatore e direttore del Festival Cinema Giovani di Torino (poi Torino Film Festival), intraprende una riorganizzazione dell’iniziativa, con l’aggiunta di nuovi ingressi e nuovi spazi (come la ristrutturata Sala Perla), che migliorano la fruizione di un evento il cui pubblico è in crescita. E se il 1999 è segnato dall’apertura dell’ultimo, conturbante capolavoro di Stanley Kubrick Eyes Wide Shut (in un’edizione rimasta impressa per i diversi titoli che trattano in maniera esplicita la sessualità), il 2000 è l’anno del “risarcimento” a Clint Eastwood, prima sottovalutato dall’allora direttore Gillo Pontecorvo (che aveva scartato Gli spietati e I ponti di Madison County) e ora celebrato col riconoscimento alla carriera e la proiezione di Space Cowboys.

Il Leone d’oro di quest’anno va invece a Il cerchio, dell’iraniano dissidente (oggi in carcere) Jafar Panahi. Ma è significativa anche la presenza di Memento, acclamata opera seconda di Christopher Nolan, che apre una felice tradizione di film statunitensi di qualità e fuori dagli schemi lanciati con successo dal Lido nel nuovo secolo: tra gli altri, Lontano dal Paradiso di Todd Haynes (2002), Lost in Translation di Sofia Coppola (2003), I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee e The Wrestler di Darren Aronofsky, questi ultimi due Leone d’oro rispettivamente nel 2005 e nel 2008.

Dopo la parentesi dello svizzero Moritz de Hadeln (direttore della Mostra nel biennio 2002-2003), è quindi Marco Müller a guidare la Mostra nel prosieguo del primo decennio dei Duemila. Affrontando, tra le altre cose, le conseguenze dell’allarme terrorismo, con un’edizione 2005 per la prima volta blindata (a seguito degli attentati in città come Londra e Madrid) con poliziotti e carabinieri armati, metal detector e persino cecchini appostati sul tetto del Palazzo del Casinò.

Non mancano di far sentire i loro effetti sul Festival anche le guerre vecchie e nuove in Medio-Oriente e la crisi economica del 2008. L’invasione americana dell’Iraq sarà al centro di diversi titoli presentati al Lido, come il Leone d’argento Redacted  di Brian De Palma (2007) e il futuro premio Oscar The Hurt Locker di Kathryn Bigelow (2008), mentre all’interno di un carro armato israeliano si svolge Lebanon di Samuel Maoz, Leone d’oro 2009.

Proprio in quell’anno, i tagli del Governo Berlusconi al Fondo Unico per lo Spettacolo suscitano la protesta del mondo del cinema italiano e vedono coinvolte anche la Biennale e la Mostra del Cinema, che perdono finanziamenti per 2 milioni di euro. Ma Venezia, intanto, continua (anche) a coltivare luoghi per scoperte all’insegna della libertà creativa: nel 2004 nascono le Giornate degli Autori, in accordo con l’ANAC e l’Associazione dei produttori indipendenti API, che gestiscono in autonomia il nuovo spazio, mentre Orizzonti (aperta ai documentari e dotata di una sua giuria per l’assegnazione dei premi) «è destinata», scrive Brunetta, «a rivelarsi in assoluto la sezione più vivace, innovativa e coraggiosa pensata in un festival internazionale all’inizio del nuovo millennio».

Tra le cinematografie che continuano a godere di ottima salute e notevole consenso al Lido c’è quella dell’Estremo Oriente, e in particolare la cinese, con ben tre Leoni d’oro in questi anni: Non uno di meno di Zhang Yimou (1999), Still Life di Jia Zhangke (2006, anno peraltro segnato da David Lynch e dal suo INLAND EMPIRE) e Lussuria di Ang Lee (2007). Dalla Corea del Sud emerge invece il talento di Kim Ki-duk (Premio Speciale nel 2004 con Ferro 3 – La casa vuota), destinato a ulteriore gloria a Venezia nel decennio successivo, prima della tragica morte nel 2020 per Covid.

Altalenanti invece le sorti del nostro cinema al Lido in questi anni: a volte immeritatamente escluso dal palmarès (Buongiorno, notte di Marco Bellocchio nel 2003), che altre volte per contrasto alcuni considerano sin troppo generoso (la doppia Coppa Volpi a Luce dei miei occhi di Giuseppe Piccioni nel 2001). I film nazionali possono essere bersaglio di fischi e derisione (Ovunque sei di Michele Placido e I giorni dell’abbandono di Roberto Faenza), ma anche venire acclamati e premiati senza polemiche, come nel caso di Nuovomondo di Emanuele Crialese (Leone d’argento 2006) e della performance di Silvio Orlando ne Il papà di Giovanna di Pupi Avati (Coppa Volpi 2008). Contraddizioni di un decennio che si chiude col primo lungometraggio italiano ad aprire in concorso il Festival, Baarìa di Giuseppe Tornatore.

Gli anni 2010-2021

Il secondo decennio dei Duemila si apre con un’edizione difficilissima per la Mostra di Venezia. Di «situazione disastrosa» nel 2010 parla l’allora Presidente della Biennale Paolo Baratta, a causa soprattutto delle cattive condizioni in cui riversano molti degli spazi: emblematico il «grande buco» aperto dal cantiere per la costruzione del nuovo Palazzo del Cinema, che si ferma nel 2011 in seguito alla denuncia  del Codacons per la presenza nell’area di amianto.

Malgrado questo e altri problemi, il direttore Marco Müller termina il suo mandato con tanti film spesso di qualità, internazionali e italiani: nel 2010, tra gli altri, abbiamo Noi credevamo di Mario Martone e Il cigno nero di Darren Aronofksy (ma la giuria presieduta da Quentin Tarantino incorona Somewhere di Sofia Coppola). L’anno successivo ci sono invece Carnage di Roman Polański, il discusso A Dangerous Method di David Cronenberg, il pugno dello stomaco Shame di Steve McQueen (Coppa Volpi a Michael Fassbender), il profetico Contagion di Steven Soderbergh e il Leone d’oro Faust di Aleksandr Sokurov.

Il ritorno di Alberto Barbera (che nel frattempo ha diretto il Museo Nazionale del Cinema) porta con sé non poche novità: tra queste, l’apertura del Venice Market all’Excelsior e l’avvio di Biennale College Cinema, laboratorio permanente per il sostegno e la formazione di nuovi talenti (i progetti presentati alla prima edizione sono oltre 400). Si interviene anche sulle location, col restauro della Sala Grande e della Sala Darsena e finalmente, nel 2016, la copertura del “buco” tra Palazzo del Cinema e il Casinò, con la realizzazione di una nuova struttura, la Sala Giardino.

Intanto prosegue il rafforzamento del rapporto con Hollywood: il palmarès del 2012 vede affermarsi The Master di Paul Thomas Anderson, Leone d’argento e Coppa Volpi ex aequo ai protagonisti Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman (ma il Leone d’oro se lo aggiudica il coreano Kim Ki-duk con Pietà). E, proprio negli anni Duemiladieci, la Mostra assurge a «luogo benefico e portafortuna» (scrive Brunetta nel suo racconto della manifestazione), sottraendo terreno a Toronto e Cannes.

Sono diversi, infatti, i film presentati e premiati al Lido che poi trionfano agli Oscar. A partire da Gravity di Alfonso Cuarón, apertura del 2013 (anno del passaggio al digitale delle sale italiane), poi vincitore di 7 statuette dell’Academy tra cui Miglior regia. Tocca poi a Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu (4 Oscar tra cui Miglior film) e Il caso Spotlight di Tom McCarthy (2015, altro Oscar al Miglior film), e per pochissimo La La Land (Coppa Volpi nel 2016 a Emma Stone) non si aggiudica la statuetta principale (ottenendone comunque 6, tra cui quella al regista Damien Chazelle).

Dei titoli citati, due su quattro sono diretti da autori messicani, esponenti di una vitalissima ondata di cineasti che continuerà ad imporsi tra il Lido e l’Academy, con i Leoni d’oro La forma dell’acqua di Guillermo Del Toro (2017, Oscar al Miglior film) e Roma di Cuarón (2018, 3 Academy Awards), primo film Netflix a vincere nella Mostra che si apre alle piattaforme digitali.

Che questa Venezia voglia non solo inseguire ma anticipare le trasformazioni dell’industria lo dimostra poi la nascita, nel 2017, della sezione dedicata alla realtà virtuale. Senza perdere interesse verso la memoria del cinema che fu (portata avanti dalla sezione Venezia Classics) e verso film e autori meno mainstream, ben rappresentati in sezioni come Orizzonti, Settimana Internazionale della Critica e Giornate degli Autori, nonché in grado più volte di scalare la vetta del Concorso principale. È il caso del venezuelano Ti guardo di Lorenzo Vigas (2015), e del filippino The Woman Who Left di Lav Diaz (2016), già acclamato frequentatore della Mostra con i suoi lavori dalla durata fluviale.

Quotazioni in rialzo anche per il cinema italiano: tra esordi folgoranti (L’intervallo di Leonardo di Costanzo, 2012) e autori in crescita, da Susanna Nicchiarelli, vincitrice di Controcampo Italiano nel 2009 con Cosmonauta e poi Premio Orizzonti con Nico, 1988 nel 2017, a Luca Guadagnino, che dopo il debutto al Lido con The Professionals vi torna a più riprese (nel 2019 con Suspiria) affermandosi sempre più come firma cosmopolita di primo piano. Ma soprattutto, l’Italia sale al gradino più alto del podio nel 2013 (per la prima volta dopo quindici anni) grazie a Sacro GRA di Gianfranco Rosi, in un’annata che vede un’inedita affermazione dei documentari (tra cui At Berkeley di Frederick Wiseman e Che strano chiamarsi Federico di Ettore Scola, Leone d’oro alla carriera di quell’anno).

L’ultimo anno prima del Covid segna invece una nuova tappa dell’intesa con Hollywood, col premio principale a Joker, cinecomic anomalo (tanto da sembrare più un noir o un pamphlet socio-politico) e fra i titoli di punta della stagione. Dal 2020 il nuovo presidente della Biennale è Roberto Cicutto, già produttore (anche del Leone d’oro La leggenda del santo bevitore) e alla guida di Istituto Luce Cinecittà.

Poche settimane dopo la nomina, l’Italia entra in lockdown a causa della pandemia di Covid-19. È una delle maggiori sfide (non solo) per la Mostra, che risponderà con un’edizione 2020 coraggiosa, in grado di conciliare le misure sanitarie col ritorno alla condivisione della cultura in presenza e di proporre una selezione ricca, con un altro Leone d’oro lanciato verso l’Oscar, Nomadland di Chloé Zhao.

Segue quella che Brunetta definisce la «Mostra della Rinascita», col ritorno dei divi hollywoodiani (al seguito dei blockbuster Dune e The Last Duel), ma anche tanto cinema d’autore (e d’autrice) dentro e fuori il palmarès, dal Leone d’oro L’événement di Audrey Diwan a Qui rido io di Martone, passando per il sorrentiniano È stata la mano di Dio e Il buco di Michelangelo Frammartino. Un buon inizio per un futuro dove la Mostra, scrive e auspica Brunetta, si candida a confermarsi «santuario laico per migliaia di pellegrini vecchi e nuovi» e «osservatorio avanzato nonché guida alle nuove frontiere della civiltà della visione».

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