Music for Black Pigeons e Call of God

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MUSIC FOR BLACK PIDGEONS

Danimarca 2022, Regia Jørgen Leth, Andreas Koefoed Documentario, Durata 92’ Ánorâk Film Denmark ApS

Nel 2021 il chitarrista danese Jakob Bro, il trombettista norvegese Arve Henriksen e il batterista spagnolo Jorge Rossy pubblicano per l’etichetta ECM il disco Uma Elmo. Il titolo di uno dei nove brani che compongono quel CD è, appunto, Music for Black Pigeon ed è stato preso in prestito dai documentaristi danesi Jørgen Leth (ottantacinquenne veterano della cinematografia danese) e Andreas Koefoed (suo quarantatreenne collega) nel mettere in scena una stimolante analisi sulla musica e i musicisti jazz.

Jørgen Leth pone domande esistenziali ai musicisti intervistati su cosa significhi suonare e cosa significhi ascoltare. Gli interpellati si concedono lunghe pause prima di tentare di abbozzare una risposta, a dimostrazione della difficoltà di esprimere a parole le emozioni della musica. Il film diventa una sorta di improvvisazione cinematografica. Il segreto suggerito per entrare davvero nelle musica è nel riuscire ad essere presenti nel momento presente mentre si suona e si improvvisa, portando così avanti l’eredità di generazioni di pionieri del jazz e creando qualcosa di diverso da qualunque cosa si sia mai sentita prima.

Nel film seguiamo i protagonisti mentre si svegliano, provano, registrano, suonano e parlano di musica. La miscela di brani, concerti, backstage e interviste è trascinante visto il livello stellare dei musicisti coinvolti, una eletta schiera che, oltre al già citato Jakob Bro vede, tra gli altri, sfilare davanti alla cinepresa Lee Konitz, Bill Frisell, Paul Motian, Mark Turner e Joe Lovano.

Oscar Cosulich


CALL OF GOD (LA CHIAMATA DAL CIELO)

Kõne taevast, Estonia/Lituania/Kirghizistan, 2022. Regia Kim Ki-duk. Interpreti Zhanel Sergazina, Abylai Maratov. Durata 1h e 21’.

Nel dicembre del 2020 il cinema ha perso il regista sudcoreano Kim Ki-duk, morto a causa del Covid-19 mentre si trovava in Lettonia, ormai emarginato in patria dopo le accuse di abusi sessuali rivoltegli in piena epoca #MeToo. È stato l’amaro epilogo del percorso di un autore complesso e inquieto come i suoi film, l’ultimo dei quali, Call of God (Kõne taevast), è a Venezia 79, dopo essere stato completato dall’estone Arthur Weber seguendo le indicazioni lasciate dal defunto cineasta. Al centro, una ragazza nella cui mente si affaccia un amore. Ma, come spesso accade nell’opera di Kim, la violenza e i tormenti interiori hanno un peso non indifferente nelle relazioni umane. La vita, non per nulla, è «sadismo, auto-tortura, masochismo», disse Kim in uno dei suoi lavori più importanti e rivelativi, il doc-confessione Arirang (2011), dove raccontava se stesso e i propri rovelli in seguito a una drammatica crisi creativa e umana. Ed emergeva chiaramente la natura di sofferta ricerca esistenziale del cinema di Kim, focalizzato sugli eterni nodi della colpa, del dolore e della solitudine. Difficile, allora, che nelle storie del regista amore e morte siano disgiunti. E ce lo dimostrano i suoi film più noti, da La samaritana (2004, Orso d’argento a Berlino per il miglior regista) all’estremo e scioccante apologo muto Moebius (2013), passando per Ferro 3 – La casa vuota (2005) e Pietà (2012). Per questi ultimi due, Kim si aggiudicò rispettivamente il Leone d’argento e il Leone d’oro al Lido, dove si era affacciato per la prima volta partecipando al concorso principale con L’isola (2000), rimasto nella memoria per la crudezza delle immagini che turbò non pochi spettatori.

Emanuele Bucci

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