Una struggente e longeva storia d’amore tra due giovani, uno islandese e l’altra giapponese, che si perdono e si rincontrano in tarda età, più innamorati di prima. La nuova opera di Baltasar Kormákur, presentata alla 70° edizione del Taormina Film Festival, in uscita nelle sale il 29 agosto e distribuita da Universal, è una commedia romantica, elegante, che segue un po’ le orme di Past lives, con una fotografia dell’Islanda e del Giappone notevole. La storia potrebbe sembrare un deja vu sull’amore eterno, ma il regista e gli attori, soprattutto i nipponici, riescono, grazie al gioco continuo di flashback, a non farla diventare troppo stucchevole.
Dopo aver ricevuto una diagnosi di demenza allo stadio iniziale all’origine della pandemia dovuta al COVID-19, il vedovo Kristofer (Egill Olaffson) si lascia alle spalle la sua vita di Reykjavik sperando di risolvere il più grande mistero della sua vita. Da studente a Londra cinquant’anni prima, Kristofer (Palmi Kormakur) si era innamorato di Miko (Koki), il cui padre Takahashi -san (Misahiro Motoki) possedeva il ristorante giapponese dove entrambi lavoravano. Ma al culmine della loro travolgente relazione, Miko scomparve improvvisamente. Mentre il panico per il virus si diffonde in tutto il mondo, Kristofer, oramai vecchio, decide di mettersi alla ricerca di quella che considera la sua anima gemella, decidendo di seguire le sue tracce ovunque possano portare, Londra, Tokyo, fino alla città natale di Miko, Hiroshima, prima che i suoi ricordi vadano persi per sempre nel tempo a causa della sua malattia.
Perché ha deciso di puntare sul racconto di Olaf Olafsson, che cosa l’ha colpita?
Il libro mi è stato regalato da mia figlia durante Natale. All’inizio mi sembrava un po’ lento, pensavo si trattasse solo della ricerca di un uomo anziano per il suo amore giovanile perduto. Proseguendo nella lettura, però, il romanzo diventava sempre più avvincente. Una storia d’amore raccontata in maniera insolita, almeno nella cultura islandese. La storia di questo anziano che è alla ricerca di un qualche cosa di cui lui era stato privato in gioventù, lasciato in un certo senso in sospeso, senza una chiusura. Mano mano che si invecchia si va sempre di più alla ricerca di un qualcosa che possa rappresentare una chiusura.
Ha anche deciso di puntare su suo figlio come attore protagonista.
È stata veramente una cosa inaspettata perché lui è bravissimo con i computer, con la scrittura, mai avrei immaginato che potesse essere interessato a fare l’attore, anche perché non ha mai espresso il desiderio di recitare. Poi me lo sono ritrovato durante i provini invitato dal mio casting director che pensava che fosse la persona adatta ad interpretare Kristof da giovane. E devo dire che a detta di tutti, produttori, sceneggiatori e partners, quello di Palmi era stato in assoluto il miglior provino. Per me non è stato facile accettare la scelta, perché è la persona più complicata con la quale avere a che fare già nella quotidianità, ma al contempo ho imparato tantissimo da padre nel rapportarmi e nel relazionarmi a lui. Quindi per altri versi è stato un processo molto bello. Una grande sfida per entrambi.

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Il film racconta una storia d’amore interrazziale che tocca anche la tragedia della bomba nucleare di Hiroshima.
È quello che mi è piaciuto moltissimo del libro. Ci ha preso per mano, ci ha condotto con delicatezza e gentilezza a vedere come una tragedia di questo genere abbia avuto un impatto su più persone, sulle vittime, sulle generazioni successive, come questo episodio ha influenzato tutta la loro vita. Secondo me è stato un modo molto efficace, attraverso una sola vittima, raccontare una storia potente e le sue conseguenze e farlo possibilmente in maniera delicata.
È quello che il cinema dovrebbe fare?
Kieslowski diceva una cosa che in questo caso secondo me si adatta molto bene: “Io non sto cercando di cambiare il mondo, sto cercando di avere un dialogo, una conversazione col mondo”. È un modo umile di approcciarsi, di affrontare il lavoro, anche perché noi che siamo la generazione della guerra fredda, la ricordiamo e la viviamo, abbiamo una percezione che è diversa da coloro che invece quelle tragedie le hanno vissute sulla loro pelle. La generazione più anziana, invece, ha un diverso modo di affrontarla.
Ha raccontato delicatamente anche il razzismo subito dai sopravvissuti di Hiroshima dalla società di quel tempo.
È quello che mi ha spinto a volerne parlare, a raccontare questo atroce episodio: poter mostrare il punto di vista di un islandese. Questo mi ha dato l’opportunità di essere libero di raccontare la tragedia della bomba nucleare che ha colpito Hiroshima. Nel corso degli anni, oltre ai tantissimi morti, i cittadini sopravvissuti ebbero pesanti ripercussioni nella vita quotidiana, non solo fisici ma anche sociali. I giapponesi hanno addirittura coniato un termine per definire i sopravvissuti alle radiazioni nucleare: hibakusha. Lo vediamo nella storia della protagonista e di suo padre che nonostante siano scappati dal Giappone hanno portato con loro il peso delle conseguenza di quella atrocità a Londra.
Spesso anche le vittime vengono socialmente criticate.
Criticare o accusare la vittima è qualcosa che comunque ancora oggi si fa. Guardiamo per esempio al Covid, perché anche qui possiamo tracciare il parallelo. Le prime vittime sono quelle che noi abbiamo accusato di essere degli untori e poi alla fine ce lo siamo beccato tutti.
Perché la scelta molto marcata, anche esteticamente, di far somigliare i protagonisti alla coppia più in vista dell’epoca John Lennon e Yoko Ono?
In realtà non è una cosa su cui abbiamo puntato intenzionalmente, che abbiamo scelto, anche se era presente nel romanzo. Forse il fatto che il giovane Kristòfer guardi a Lennon in un certo senso come un eroe, magari ha influito sulla costruzione del personaggio. Il fatto di seguire un certo tipo di ideologia politica spingeva le persone all’epoca a vestirsi in una certa maniera, a imitare i loro miti. Va anche considerato che dopo la seconda guerra mondiale c’era molta ostilità nei confronti della popolazione giapponese in occidente, soprattutto in Inghilterra e in America. Infatti ad un certo punto Miko chiede a Kristòfer cosa ne pensa dei rapporti e delle relazioni interrazziali, prendendo spunto proprio dalla leggendaria foto di John Lennon e Yoko Ono.
Perché ha scelto di raccontare la storia con una sorta di gioco di memoria del protagonista?
La memoria è un qualcosa di fotografico ed io ho cercato di fare avanti e indietro, parlando tra l’altro degli anni 70 e del periodo del Covid. Mi piace molto anche questa continua contrapposizione nel film tra il giovane e l’anziano Kristofer. Quando è giovane è avventuroso, abbandona l’università perché non ne condivide più la politica e va a lavare i piatti nel ristorante giapponese perché innamorato della figlia del proprietario. Con l’evento traumatico dell’abbandono ritorna in Islanda e apre un ristorante, mette su famiglia, si spegne. Quando poi in vecchiaia perde la moglie e gli viene diagnosticata l’inizio di una demenza senile, ritorna in un certo senso con lo spirito giovanile e riparte all’avventura alla ricerca del suo primo amore. Si fa addirittura tatuare. La memoria è un qualcosa di estremamente fragile. Quando noi guardiamo indietro, a quelli che sono i nostri rapporti amorosi, alle nostre relazioni sentimentali, tendiamo a ricordare solo gli aspetti positivi. I ricordi si concentrano sulle cose belle, le litigate, quelle minori, non rimangono in testa, quelle spariscono, a meno che non ci sia stato un trauma.

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Nel caso del vecchio Kristof è la malattia che gli infonde il coraggio necessario per ritornare tra le braccia del suo primo amore.
Pensi che Egill Olaffson, l’attore che interpreta l’anziano Kristòfer, dopo che lo abbiamo scelto gli è stato diagnosticato il Parkinson Plus, una patologia che poi porta all’Alzheimer. Abbiamo comunque deciso di fargli interpretare il ruolo in ogni caso. La patologia del protagonista è presente, ma è agli inizi e non ha ancora inficiato il suo modo di essere. Tuttavia è la scintilla che lo fa andare alla ricerca di una risposta ad un evento traumatico della sua vita che è rimasto in sospeso.