The Strings (Le stanze di Rol)
Catherine è una giovane e talentuosa musicista. Ha appena sciolto la sua band e decide di rifugiarsi nel solitario cottage sull’oceano di sua zia per lavorare su del nuovo materiale per la sua carriera da solista. Una gita con l’amica fotografa Grace in una fattoria abbandonata sembra scatenare qualcosa di misterioso che si manifesta a Catherine facendole vacillare ogni certezza.
Una delle tendenze più in voga nell’horror contemporaneo è la materializzazione delle proprie paure. Niente di particolarmente innovativo, dato che di per sé il genere è uno strumento per esorcizzare qualcosa. Ma nella società contemporanea questo bisogno sembra essersi fatto sempre più forte.
Un esempio notevole di questa deriva è After Midnight (2019), in cui l’ansia che genera nel protagonista Hank l’idea di portare la relazione con la sua fidanzata a un livello successivo, quello del matrimonio e dell’assunzione della responsabilità della vita adulta, si trasforma in energia negativa sotto forma di un mostro che ogni notte cerca di entrare in casa.
Una geniale forma di psicoanalisi, che nel caso di The String il regista Ryan Glover e la sceneggiatrice Krista Dzialoszynki applicano allo stress costante che si prova nell’essere artisti indipendenti, mettendosi quindi costantemente in gioco con la paura di fallire.
Per trasmettere meglio quest’angoscia, la cosa migliore era avere una protagonista che potesse calarsi totalmente nella parte. Catherine è interpretata da Teagan Johnston, musicista giovanissima ma già molto apprezzata nella scena underground, tanto da avere suonato già anche al Club Silencio, il locale parigino di David Lynch ispirato a Mulholland Drive.
Il giardino che non c’è (TFF39 Docs – Fuori Concorso)
La storia del cinema è ricca anche di storia che accompagnano la realizzazione di film più o meno famosi. In questo caso di un film da Premio Oscar, Il giardino dei Finzi Contini, quarta statuetta vinta da Vittorio De Sica, anche abbastanza a sorpresa.
Tratto dal romanzo di Giorgio Bassani, il film ha avuto anche un’aspra storia legale proprio per la querela da parte dell’autore ai danni di De Sica, reo di avere cestinato la sceneggiatura originariamente scritta dallo stesso Bassani per usare quella commissionata a Ugo Pirro.
Ma la cosa che ha maggiormente affascinato Rä Di Martino, il regista de Il giardino che non c’è, è proprio il luogo fisico che dà il titolo al romanzo, al film e a questa analisi.
Quanto il fascino di un luogo frutto di una creazione artistica può influire sulla vita delle persone, da questo assunto Di Martino si muove per analizzare un film e un romanzo che hanno impattato in maniera importante nell’immaginario collettivo del nostro paese.
Come giustamente fa notare, nella seconda metà degli anni Settanta tante neo nate vennero battezzate Micol, come la protagonista del romanzo. Nel film era interpretata da Dominique Sanda, attrice francese che al cinema italiano fu molto legata in quegli anni, lavorando anche con Bernardo Bertolucci ne Il conformista e in Novecento.
È lei a introdurre questo viaggio, in cui lo spettatore è accompagnato anche dall’altro protagonista del film, Lino Capolicchio, una passeggiata attraverso un giardino inventato e che nonostante ciò è ancora cercato dai molti viaggiatori che visitano Ferrara sulle tracce dei Finzi Contini.