Daliland: Kingsley e il mito di Salvador Dalì

A 40 anni dall’Oscar per Gandhi, Ben Kingley si cala nel ruolo di un’altra icona del ‘900, Salvador Dalì, raccontato negli ultimi anni della sua vita. E terrorizzato dall’idea della morte.

DALILAND
(10:00, Cinema Romano 2)

Un viaggio nel mondo di Salvador Dalì, uno dei più grandi ed eccentrici artisti del XX secolo, accompagnati dal suo giovane assistente, James, che nel 1973 aiutò l’ormai settantenne pittore spagnolo ad allestire la mostra in una galleria di New York. In Dalìland, fuori concorso al Torino Film Festival, la regista Mary Harron (American Psyco, I Shot Andy Warhol), non solo racconta gli ultimi anni della vita di Dalì, ma anche il suo tempestoso legame con Gala, moglie e musa, mescolando realtà e immaginazione, arte e vita, la purezza dell’ispirazione e la corruzione dell’universo che ruotava intorno a un artista fragile ed egocentrico. Nei panni del protagonista c’è un istrionico Kingsley, Sir Ben Kingsley, al quale il Zurich Film Festival («Un festival giovane e ambizioso», ha commentato l’attore) ha reso omaggio con il Golden Icon Award. Ma il cast del film, nelle sale con Koch Media, vede anche Barbara Sukowa (Gala), Christopher Briney (James) ed Ezra Miller (Salvador da giovane). 

A 40 anni da Gandhi, per il quale vinse l’Oscar, l’attore inglese si cala nuovamente nei panni di un’icona che, anche fisicamente, tutto il mondo conosce. Lo abbiamo intervistato

Quali sono state le sfide nel costruire questo personaggio?

Mi sono ispirato ai suoi scritti, alle interviste che ha rilasciato e al suo straordinario lavoro. Con la sua arte si è preso dei rischi enormi, e io dovevo fare la stessa cosa, non potendo certo permettermi una semplice e cauta performance. Con altri personaggi mi sono comportato diversamente: quando, ad esempio, ho avuto l’onore di interpretare Itzhak Stern in Schindler’s List dovevo stare molto attento a non essere mai sopra le righe, diventando un uomo che in quegli anni aveva una stella gialla cucita sui vestiti. Con Dalì è stato quasi l’opposto: lui osava, oltrepassava i limiti, spostava i confini. È stata un’esperienza esilarante e spossante al tempo stesso. 

Cosa ha letto su di lui?

Due biografie, ma soprattutto il libro di Amanda Lear, La mia vita con Dali, che ho trovato estremamente interessante perché, diversamente dai biografi, lei lo ha conosciuto bene, lo ha amato, è stata con lui.  Tutti hanno tentato di descriverlo come un diamante dalle mille facce ed è stato difficile per tutti catturare quello che si nascondeva dietro i suoi baffi, certi sguardi, le opere d’arte, le parole. Io spero di aver restituito almeno qualcuno degli aspetti salienti della sua personalità così esagerata e caotica.

Ha citato i baffi di Dalì. Quanto sono stati importanti certi dettagli?

Fondamentali: il timbro della sua voce, gli occhi, la forma dei baffi. Ne abbiamo provati molti prima di trovare quelli che lo rappresentassero nel modo giusto. Qualcuno potrà pensare che un paio di baffi non sia così importante, invece sono il segno della sua eccentricità, la sua firma. Non si poteva non partire da questi minuscoli dettagli, su cui mi piace molto lavorare. Il più delle volte quando lavoravo al personaggio lo vedevo lì, davanti me, seduto nel mio studio. Altre volte sembrava che mi osservasse a distanza dicendomi «ora me ne resto un po’ qui a guardarti, buona fortuna!» Talvolta era addirittura assente, ma poi sentivo che mi permetteva di tornare a lavorare sul suo ritratto. Empatia e trasformazione sono le parole chiave. 

Ben Kingsley in Dali Land, a sinistra Barbara Sukova, nel personaggio di Gala e Andreja Pejic, che veste i panni di Amanda Lear

Nel film Dalì è ossessionato dalla morte.

Introdurre questo demone nella sua vita è stata una scelta molto interessante da parte dello sceneggiatore, John C. Walsh, e della regista. Nel film Dalì fa costantemente i conti con il senso di mortalità, convinto di essere la reincarnazione del fratello morto, il suo fantasma. Il film esamina come un genio dice addio alla vita e personalmente non credo che lui si morto serenamente.  

E lei ha paura della morte?

Creare il ritratto di un uomo ossessionato dalla propria mortalità ha provocato in me l’effetto opposto, mi ha liberato da questa paura. Tra l’azione e stop quel terrore era ovviamente presente, ma ho avuto l’opportunità di esplorare un sentimento che non mi appartiene. Quella della scena dell’ospedale è stata paradossalmente una delle più gioiose della lavorazione, perché alla fine sono tornate a casa. 

Cosa pensa quando guarda indietro, alla sua carriera?

Credo molto onestamente che senza la mia quindicinale esperienza alla Shakespeare Company, un vero e proprio ginnasio, non sarei qui oggi. Diverse centinaia di anni fa Shakespeare ha riconosciuto e descritto i diversi comportamenti umani che ancora oggi sono un riferimento per moderni psichiatri e psicoanalisti. Quando in una sceneggiatura riconosco una genuina osservazione del comportamento umano a cui posso dare corpo come attore, allora sento di dover accettare quel ruolo, con grande sollievo del mio commercialista. Se questa osservazione manca, si rischia solo di realizzare copie di copie di copie.

Raccontare un artista iconico significa anche mostrare il mondo che lo circonda.

Il film racconta che l’ossessione per il denaro apparteneva alla moglie Gala. Una delle qualità che hanno fatto di Dalì un genio è il non essere mai veramente cresciuto, maturato. Si affidava sempre a persone che gli dicevano cosa fare. Comprensibile allora che questa combinazione di genialità e ingenuità lo abbiano portato a essere mal guidato, perché questo dualismo costituiva la sua parte vulnerabile. Personalmente non ho mai vissuto niente di simile, sebbene abbia un team composto da un addetto stampa, un agente, un commercialista, un avvocato, tutte persone che mi guardano le spalle e ai quali sono grato perché mi aiutano in molte decisioni importanti. 

Nella sua carriera ha accettato anche ruoli che prevedevano solo qualche scena in grandi blockbuster.

È un enorme divertimento per me avere a che fare con la straordinaria macchina hollywoodiana, lavorare su certi personaggi e con certi registi. Se una sceneggiatura mi piace, non mi importa quante siano le mie scene. Non sono affatto cinico nel mio lavoro, cerco di spremere divertimento da tutto quello che faccio. Ogni cosa, anche la più piccola, ha contribuito a portarmi dove sono oggi. 

I ruoli a cui è più legato? 

Quello di Gandhi – il film mi fu offerto proprio mentre leggevo un volume sul leader indiano – quello di Simon Wiesenthal, che per Murderers Among Us mi aveva chiesto espressamente, quando ci siano incontrati a Vienna, di accettare quel ruolo, e quello del già citato Itzhak Stern, coscienza e testimonianza dell’Olocausto in Schindlers List, di cui mi fu mandato il copione proprio mentre stavo leggendo il libr). Durante le riprese ho sempre avuto in tasca la foto di Anna Frank e ogni giorno le dicevo: «Tutto questo lo sto facendo per te, ragazza cara!». Otto anni dopo ho avuto l’onore di interpretare Otto Frank, il padre di Anna, in una miniserie tv dedicata alla sua storia. Una delle tante magiche coincidenze della mia vita, che in inglese chiamiamo serendipity.

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