Orlando, l’Europa di Vicari tra due generazioni

Una storia intimista dal respiro europeista quella di Orlando di Daniele Vicari, in programma oggi nella sezione Fuori Concorso del TFF alle ore 19:00 al cinema Massimo. Interpretato da Michele Placido e dalla giovanissima Angelica Kazankova, il film racconta la storia di Orlando, un anziano signore che vive in un remoto paesino di montagna del sud Italia. Riceve notizia che il figlio, con cui non parla da molti anni, sta molto male. Si reca allora in Belgio, quando purtroppo è troppo tardi. Lì incontra per la prima volta sua nipote Lyse, una bambina sensibile e in- dipendente di cui adesso deve prendersi cura, iniziando una nuova vita a 75 anni in una terra a lui sconosciuta.

Il film arriverà nelle sale dal 1° dicembre distribuito da Europictures. CIAK ha incontrato il regista Daniele Vicari per parlare del film.

Da dove nasce l’idea?

Ho considerato una cosa che capita da un po’ e, durante la pandemia, manifestatasi più chiaramente. Le persone anziane fanno cose che agli adulti sfuggono, ma che i bambini, che non hanno uno sguardo ideologico, intuiscono. È una forma di comunicazione basata su bisogni e che genera un amore puro. Per i nonni è un bisogno di vita, per i bambini di futuro. Ho pensato che mio nonno e le persone anziane che ho conosciuto non si ponevano domande sul presente, almeno non nel modo in cui me le pongo io. Allora ho raccontato questa storia attraverso un sentimento e un conflitto tra un nonno e una bambina che si fanno le stesse domande: chi sono, dove sono e che cosa ne sarà di me?

Da quando hai scritto il film in Europa sono successe moltissime cose e il desiderio di connessione tra culture che c’è nel film è oggi un elemento fondamentale.

Viviamo facendo finta di essere una società coesa, in realtà tutti i giorni misuriamo la distanza tra questa finzione e la realtà. Gli individui sono isolati e nessuno lo è più di una bambina o di un vecchio. Quando si incontrano, queste due entità fanno venire fuori la contraddizione di fondo della nostra società, in cui la parola amore è diventata quasi una bestemmia, mentre tra loro è una scintilla. Se non recuperiamo la purezza di questo sentimento non andiamo da nessuna parte. Il cinema italiano racconta la necessità che gli individui si connettano tra loro, ma non racconta l’Europa, il grande contesto in cui siamo immersi, e questo ci fa sentire distante la guerra e le istituzioni. Orlando dice «non voglio morire a 3000 km da casa». La percezione è di lontananza assoluta. Per questo ho pensato di far viaggiare per la prima volta un uomo di 75 anni e riaprire la sua vita. E ho tolto la generazione di mezzo e tutto quello che si frapponeva tra Orlando e Lyse, i cui destini si incontrano e devono misurarsi tra loro.

Nel saggio che hai scritto e che è edito da Einaudi hai definito il cinema L’immortale. Perché?

Perché lo è. Parliamo della morte del cinema da quando è nato e ci è sfuggito un dettaglio: il cinema è l’ambiente in cui viviamo, lo costituisce, costruisce il nostro immaginario. Abbiamo tanti dispositivi per guardare immagini, basta fare un viaggio in treno, e proprio così nasce l’idea del libro, per rendersi conto che ognuno ha il proprio schermo. Le persone guardano immagini e la scaturigine di questo cambiamento è il cinema, che è diventato gigantesco e non lo vediamo più. Non lo vede più chi lo fa, chi lo giudica o lo promuove. Ogni anno solo in Europa si producono 1500 film, ma chi può vederli per poterli valutare? Il cinema, forse più o oltre che immortale, è incommensurabile, non abbiamo gli strumenti per conoscerlo e bisogna essere umili di fronte a questa cosa. Dire frasi altisonanti come cinema è morto è fallimentare perché non è vero.

Tornando a Orlando. Michele Placido offre una delle sue migliori interpretazioni in carriera.

È stato un incontro inaspettato e molto bello. Michele si è messo al servizio del racconto e di Orlando, lo ha capito profondamente in un percorso che abbiamo fatto insieme, lo ha restituito con una intensità che è un regalo pazzesco per il film.

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