«Si può acquisire una tecnica, un’esperienza, ma l’arte è qualcosa di misterioso»: il giorno prima di ricevere il (meritatissimo) Leone d’oro alla carriera dell’81ma Mostra del Cinema di Venezia, il magnifico ottantenne Peter Weir si è raccontato alla Match Point Arena del Lido per un’affollatissima masterclass, aperta dal direttore della Mostra Alberto Barbera e chiusa dagli spettatori (molti dei quali giovani) che gli rivolgono il saluto del Prof. Keating/Robin Williams ne L’attimo fuggente: “Oh, mio capitano!”.
E in un’ora di incontro il regista australiano, conversando con Paolo Bertolin e poi col pubblico, ha ripercorso la sua intera carriera, dagli inizi televisivi a quel Master & Commander (2003) riproiettato oggi nella Sala Grande del Palazzo del Cinema come Evento speciale, passando per il primo lungometraggio Homesdale (1971), «il più difficile da girare» per Weir, con sole quattro settimane di tempo, poche scene al giorno e il passaggio dal 16 mm al 35 mm.
Non molto dopo è venuta la definitiva rivelazione del suo talento sulla scena mondiale, col cult Picnic ad Hanging Rock (1975): Weir al riguardo si sofferma in particolare sul sodalizio col direttore della fotografia Russell Boyd, che collaborerà con lui anche per L’ultima onda (1977), Gli anni spezzati (1981), Un anno vissuto pericolosamente (1982), e per gli ultimi due lungometraggi, Master & Commander e The Way Back (2010). «Avevamo pochi soldi a disposizione», ricorda il regista parlando della loro esperienza sul set di Picnic ad Hanging Rock, «e quindi all’inizio dividevo le scene in “A” e “B”, le A dovevano essere girate alla perfezione, le B più in fretta». Una scena, però, richiedeva una luce disponibile soltanto per un’ora al giorno: «L’abbiamo girata in sei ore, quindi sei giorni!».
Verrà poi l’ulteriore svolta dello sbarco a Hollywood, nutrito anche dall’enorme ammirazione per Stanley Kubrick («per me è sempre stato un’ispirazione incredibile, alla fine l’ho incontrato e abbiamo passato una serata meravigliosa insieme nel 1982») e segnato da star come Harrison Ford (Witness – Il testimone, 1985, Mosquito Coast, 1986). Sul primo incontro col divo di Indiana Jones e Star Wars racconta: «Chiaramente la sua reputazione lo precedeva, ma tutta quest’aura è scomparsa quando abbiamo iniziato a parlare, perché ci siamo detti: “Dobbiamo riuscire a creare qualcosa insieme che sia al di là di noi stessi”».
A Robin Williams, invece, chiese di essere meno sopra le righe rispetto al solito: «Vediamo quanto riesci ad “attenuarti”, a fare meno, magari sollevare solamente un sopracciglio ma senza perdere il tuo fascino». Il filmmaker paragona la scelta degli attori all’indagine per trovare una persona scomparsa: «C’è una “ricompensa”, e molti vanno ai provini sperando di essere quella persona scomparsa: il regista è il detective».
Ma per Weir il lavoro di cineasta può essere accostato anche a quello di compositore: «La sceneggiatura è il libretto, io sono il compositore, il regista compone la musica e le immagini non sono altro che le note». La musica, non per nulla, è fondamentale nel processo creativo del cineasta: «Credo sia l’aspetto più importante, c’è stata prima ancora che l’uomo iniziasse a fare i graffiti sulle pareti. Ascolto la musica per entrare in una sorta di trance», prediligendo la strumentale, in modo da non focalizzarsi sul significato delle parole: «Perché la cosa più difficile è liberarsi della nostra componente razionale, che bisogna avere, ma è dalla parte inconscia che viene l’ispirazione».
Ma quando si è finito di girare, il montaggio deve essere rigoroso: «Guardo il film a casa in silenzio, senza l’audio, e questo mi aiuta a cercare le ripetizioni: bisogna dirlo una volta sola e bene». Una lezione appresa anche e soprattutto da Hollywood, alle proiezioni col pubblico: «Se c’è qualcosa che non funziona, lì lo capisci subito. Io faccio i miei film per gli spettatori, mi sembra giusto perché spendono dei soldi, e si spera vivano un’esperienza che i soldi non possono comprare. Vengo dall’Australia, non abbiamo la vostra cultura e tradizione artistica, ma in un Paese di classe operaia quando facciamo qualcosa vogliamo sia fatto bene».
Sorprendentemente, la scena di cui è più soddisfatto viene da uno tra i suoi film meno ricordati, Fearless (1996): «Quando l’aereo si sta per schiantare e Jeff Bridges dice al ragazzino: “Sdraiati, appoggia la testa, è tutto meraviglioso”». Tra le più difficili da girare, invece, il bacio tra Sigourney Weaver e Mel Gibson in Un anno vissuto pericolosamente: «Era la prima volta che dirigevo una storia d’amore e anche loro non le avevano mai interpretate, sembravano due vergini sul set, al primo tentativo la scena venne orribile». Quel film, tra l’altro, ci portava fino in Indonesia, e forse la propensione del regista a raccontare spesso storie di personaggi in luoghi, terre e comunità “altre” gli deriva dal lungo viaggio in Europa compiuto a vent’anni: parlando dell’Italia, menziona anche un autista che gli insegnò Bella ciao, che il cineasta inizia ad intonare suscitando uno dei tanti applausi della sala.
Ai presenti che nutrono l’ambizione di diventare registi, Weir consiglia anzitutto di «scrivere: adesso abbiamo tutti delle videocamere, quando ero giovane era tutto molto più costoso, ma penso ancora che sia più utile un pezzo di carta». E osservare la realtà circostante: «Una volta a una scuola di cinema ho detto agli allievi di spegnere tutto e ho chiesto loro: “Cosa avete visto stamattina venendo qua?”. Prima di utilizzare una telecamera bisogna attivare la propria immaginazione». E a chi gli domanda se realizzerà un nuovo film: «No basta, sono andato in pensione, mi ci sono voluti anni per liberarmi di questa dipendenza! Ora è il turno delle nuove generazioni».