Amos Gitai allo Short 2023: «In Israele c’è un governo autoritario»

0

«Mi chiedono spesso perché mi piaccia così tanto l’Italia, e io rispondo che è perché la trovo molto simile a Israele. C’è in entrambi i casi una cultura “schizofrenica”, con all’interno elementi molto sofisticati, intelligenti, ed altri brutali, volgari, kitsch. Quando vengo in Italia, mi sento a casa». Non usa mezzi termini il grande regista israeliano Amos Gitai, ospite il 25 marzo del Ca’ Foscari Short Film Festival di Venezia. Un’occasione, per il cineasta, di esprimere considerazioni graffianti sulla situazione del suo Paese (e del nostro), nonché di soffermarsi sul suo nuovo progetto artistico.

Ovvero, uno spettacolo teatrale che debutterà presto a Parigi, ma che, anticipa Gitai, viaggerà anche a Londra e in Italia, dove prenderà la forma di un’installazione alla Biennale Architettura. All’origine, c’è la storia già al centro del suo documentario House (1980), su una casa di Gerusalemme appartenente a un palestinese, costretto ad abbandonarla a causa della guerra scoppiata nel 1948, e dove poi il governo israeliano colloca degli ebrei algerini. L’abitazione diverrà poi un luogo emblematico di incontro tra i due popoli, e infatti la rappresentazione di Gitai vedrà coinvolti «attori israeliani, palestinesi, ma anche francesi come Irène Jacob», e coinvolgerà lo stesso pubblico facendolo salire sul palco. La posta in gioco, per il regista, continua insomma ad essere «come l’arte possa unire le persone che la realtà e la politica vogliono dividere».

Una divisione che per l’autore, nel caso della sua terra d’origine, si sta gravemente esacerbando con le politiche della coalizione di estrema destra attualmente al potere in Israele. «È un governo autoritario che vuole distruggere il parlamento democratico», afferma il filmmaker, non risparmiando critiche neanche alla leadership italiana: «Il primo ministro Netanyahu ha incontrato di recente la vostra Presidente del Consiglio, e penso che avessero molte cose in comune di cui parlare».

Della destra italiana, non per nulla, il filmmaker si era già occupato col documentario In nome del Duce, realizzato trent’anni or sono: «Era il 1993», ricorda, «e il mio amico Enrico Ghezzi mi chiese di andare a Napoli e di realizzare quel film, per qualche strana ragione lo propose a me, anziché ad un regista italiano». Del resto, Gitai si è sempre interessato a ciò che accade al di fuori del proprio Stato: «Mi piace molto la qualifica che Stalin attribuiva come accusa agli ebrei, quella di essere cosmopoliti: siamo attenti alla nostra cultura, ma anche agli altri Paesi che amiamo e rispettiamo, e tra questi per me c’è l’Italia. Non voglio che cada nelle mani dei fascisti».

E certo il legame del regista col nostro Paese promette di essere rafforzato dalla prossima partecipazione alla Biennale di Venezia, che rinnova anche il rapporto di Gitai con l’architettura, ancora più antico di quello col cinema: «Gli unici studi che ho fatto», spiega, «sono quelli di architettura, perché mio padre era un architetto del movimento Bauahus, e volevo seguire le sue orme. Penso di aver iniziato a diventare un regista per via della guerra del Kippur».

Quella, di cui ricorre nel 2023 il cinquantenario, narrata dal cineasta nel lungometraggio Kippur del 2000, tra i suoi lavori più noti e amati. Anche per la presenza di scene memorabili come l’incipit, con i due giovani che fanno l’amore cospargendosi di colori. «Quel film è autobiografico», racconta al riguardo Gitai, «perché parla della mia storia durante il conflitto. E volevo cominciare con qualcosa di intimo. Come sempre mi piace fare, ne discussi con i miei attori, una di loro era una pittrice, e mi suggerì di fare quella scena».