Asian Film Festival 2025, intervista a Loeloe Hendra Komara, regista di Tale of the Land

Il cineasta indonesiano, ospite della rassegna al Farnese di Roma, ha parlato a Ciak del suo lungometraggio d'esordio, che intreccia mito e denuncia sulla situazione del suo Paese oggi.

0

Il 10 aprile la prima giornata tematica del 22mo Asian Film Festival (al Cinema Farnese di Roma fino al 16 aprile) ci ha portato in Indonesia facendoci ascoltare alcune voci del suo cinema contemporaneo: inclusa quella di Loeloe Hendra Komara, ospite alla manifestazione dove ha portato il suo lungometraggio Tale of the Land (Premio FIPRESCI a Busan) ed è stato intervistato da Ciak.

Il film, opera prima del cineasta dopo una serie di corti (tra cui Onomastika, presentato nel 2015 alla Berlinale), è un’affascinante dramma familiare sospeso tra mito e Storia come i due protagonisti, l’anziano Tuha (Arswendy Bening Swara) e la giovane nipote orfana May (Shenina Cinnamon). I due, di etnia Dayak, vivono in un’abitazione galleggiante nel mezzo di un lago del Borneo, dopo che una compagnia mineraria li ha privati della loro terra.

«Sono nato sull’isola di Giava», ci racconta Komara, «ma da bambino ai tempi delle scuole elementari ho vissuto nel Borneo, e lì ho ascoltato molti racconti mitici. Nel film perciò ho messo a confronto quelle storie con la situazione attuale dell’Indonesia». Ovvero, di un Paese che, a quasi trent’anni dalla fine della lunga e sanguinaria dittatura di Suharto (sostenuta dagli USA e responsabile, tra le altre cose, di una violentissima campagna anticomunista che portò al massacro di centinaia di milioni di persone), si trova presa del capitalismo più rapace (e neocoloniale), dove le speculazioni portano all’abbattimento delle foreste e alla cacciata della gente del posto dalle proprie case.

Un’immagine di Tale of the Land.

La condizione della protagonista May, impossibilitata da quella che si ritiene una maledizione a rimettere piede sulla terraferma senza svenire, riflette allora questo trauma personale e collettivo. E, sottolinea il cineasta, rappresenta «un’allegoria della situazione del Paese, dove oggi i nativi come me devono spostarsi da un posto all’altro perché vengono molte imprese che occupano la nostra terra».

Il regista tratta però questa grave questione politica attraverso la lente di un rarefatto realismo magico-onirico, dove le immagini sembrano evocare sovente una dimensione altra e impalpabile: «Tecnicamente esploro il fuori campo: volevo cioè occuparmi di ciò che non è visibile dentro i confini dell’inquadratura, e che può rendere più potente una storia. Tale of the Land perciò è il mio tentativo di dire qualcosa di importante senza mostrarlo direttamente sullo schermo».

Ed è, anche, una riflessione sul profondo legame del popolo indonesiano con le proprie radici culturali: «Penso che la modernità non abbia cambiato le nostre credenze. L’idea che la foresta sia la madre della vita, ad esempio, non è cambiata con la modernità. L’idea che l’acqua abbia un’anima, che l’albero abbia un’anima, è rimasta la stessa».