“La carne, il sangue e il virtuale”: ecco cosa succede in “Carne y Arena”, l’installazione di Iñárritu

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copy-write Emmanuel Lubezki
Il direttore di Ciak Piera Detassis ha provato l’esperienza dell’installazione Carne y Arena: ecco cosa succede nei 6 minuti di realtà virtuale firmati dal regista di Revenant
Houda Benyamina

La mia compagna di viaggio verso l’hangar dell’aeroporto, a venti minuti di macchina da Cannes, è Houda Benyamina, la sulfurea regista che l’anno scorso vinse la Camera d’Or con Divines, un gangster thriller molto femminista e “badass” girato in Pakistan e che infiammò la sala con un lungo discorso, pieno di emozioni e soprassalti e rabbia. Stiamo andando a vedere l’installazione Carne y Arena di Alejandro González Iñárritu, 6 minuti di realtà virtuale. Non sappiamo cosa stia per succedere anche se abbiamo letto.

Nell’hangar, dove veniamo separate, ci accoglie un pezzo di quel muro di ferro che separa il Messico e gli Stati Uniti. Mi chiedono di firmare un agreement dove accetto tutti i rischi, nausea vertigini ecc ecc. Mi prendono per mano e mi dicono: “Dentro sarai sola nel deserto, non ti fermare, non aver paura, vai verso i migranti verso le persone”. Mi viene un po’ di timore.

Entro sola in una stanzetta invasa da scarpe di ogni tipo perdute dai migranti in fuga verso gli Stati Uniti. Si accende una luce rossa, posso avanzare nel buio, mi mettono lo zaino a spalla e il casco, una sola avvertenza: “non correre, cerca di non correre”. Ecco sono nel deserto mentre scende la sera, dall’oscurità e dai radi cespugli mi vengono incontro i clandestini che cercano di passare di là dal confine, di là dal Muro di latta e ferro. Ho i piedi nudi nella sabbia, le scarpe e le calze me le hanno fatto togliere. Una donna e un bambino si rannicchiano al mio fianco. Cerco di capire come stanno, il suono di un elicottero brucia il silenzio  e i mormorii, il faro dall’alto illumina la scena, da ogni parte arrivano militari armati, il mitra mi passa a un centimetro, la gente si butta a terra, io cerco di raggiungere il ragazzino che mi sembra ferito, mi stendo a terra quando lo ordinano i soldati.

D’improvviso un militare mi si para davanti e proprio in quell’attimo esplode davanti ai miei occhi un grande cuore a nudo pulsante. “Il cuore ce l’hanno tutti” mi spiegheranno poi, “anche i cattivi”. Le vene si gonfiano e quel cuore virtuale batte batte batte nel cielo violento del border messicano. Io sono a terra con migranti. D’improvviso la notte d’orrore finisce, le persone  virtuali che non sono riuscita a toccare, ma ho cercato di consolare, sono sparite. S’alza un’alba gialla sulle dune piatte e sulla vegetazione rada  bassa. La scena è vuota.

Un’esperienza di immersione totale, che lascia storditi, alieni. Nell’uscire dal quei sei minuti in cui il terrore e la mancanza di futuro ti si sono attaccati alla pelle , devi attraversare un’altra stanzetta con pochi oggetti veri ritrovati, un Big Jim bruciacchiato, uno zainetto da bambina, un cumulo di scarpe femminili con tanti Made in Italy sulla suola. Un lungo corridoio è interrotto da finestrelle con il volto di ogni migrante e il racconto della sua storia. Così l’hanno raccontata al regista e così loro stessi l’hanno re-interpretata in Carne y Arena, con la fotografia incredibile del consueto Lubezki.

Non avevo vissuto niente di simile prima, questa esperienza, finanziata da Fondazione Prada e a Milano da giugno,  non ha nulla a che vedere con le consuete esperienze di realtà virtuale. “Perché per la prima volta”, mi dice Houda che ha molti progetti in realtà virtuale, VR come dicono qui, “ci sono una visione, un artista, un’idea di cinema. La differenza è questa. Siamo state nella polvere con i migranti, ma anche nel futuro del cinema”. Davvero un piccolo, debordante, film d’autore, o forse anche qualcos’altro,  una visione non solo un esperimento (come tanti ne vedrò nei vari luoghi del festival che ormai si occupano di VR). Iñárritu, con cuore e sangue pulsanti, ci ha cacciati nell’incubo, i miei pantaloni, me ne rendo conto solo una volta rientrata nella civiltà, sono da buttare, sporchi di polvere e sabbia. Per Houda è stato “come assistente a L’entrata in treno della stazione, i primi film dei Lumières. È lo choc di una nuova nascita. Anche in quel caso gli spettatori pensavano che il treno venisse verso di loro e li travolgesse. Iñárritu è il primo che ci dà l’idea di quanto la VR possa diventare arte. La realtà virtuale rappresenterà l’8% della produzione cinematografica. Mi interessa enormemente da un punto di vista espressivo. Ma pensa a cosa farà nel campo dell’educazione, della medicina, della formazione? Nessun bambino apprenderà più come prima”.  E anche per me, da oggi, qualcosa cambia.

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