Cannes premia Christopher Doyle, la rockstar dei direttori di fotografia

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Tutto il mondo celebra Christopher Doyle, la rockstar dei direttori della fotografia (si è autodefinito il Keith Richard della categoria). All’Hotel Martinez di Cannes è stato l’ospite d’onore della manifestazione China vis à vis, organizzata dal paese che oggi tutti considerano il futuro produttivo del cinema. Ma ha anche fatto una master class con un altro visionario (il regista Jean-Pierre Jeunet), e ha ricevuto il Pierre Angénieux Excellens in Cinematography Award, assegnato dalla più famosa marca francese di lenti, che da quando è stato inventato nel 2013, ha premiato il francese Philippe Rousselot, l’ungherese Vilmos Zsigmond , l’inglese Roger A. Deakins e il polacco Peter Suschitzky.
Doyle, 65 anni, è nato in Australia e oggi vive a Honk Kong. Non ha mai vinto l’Oscar, come l’altrettanto leggendario Deakins (detto il “terzo fratello Coen” per i 12 film girati insieme), che però è stato candidato 13 volte.
Doyle ha fatto  di recente anche qualche film come regista e quando a Cannes gli hanno chiesto perché ha cominciato così tardi, ha risposto con molta semplicità: “Il cinema non è gratis, ma un’arte costosa. Quando ero più giovane nessuno mi avrebbe concesso credibilità, me la sono dovuta conquistare”.
Tutto vero, ma omette un piccolo particolare: ha girato il suo primo film solo a 31 anni, That Day, on the Beach, esordio anche del taiwanese Edward Yang. Prima aveva fatto tutt’altro, in una vita girovaga da romanzo d’avventura: ha lasciato l’Australia a 18 anni per fare il pescatore su una nave norvegese, poi è stato  mandriano in Israele (ma lui preferisce cowboy) e sia contadino che operaio di pozzi di petrolio in India. Da globetrotter ha imparato a comunicare con tutti, e oggi parla inglese, cinese, francese, cantonese, giapponese, thailandese e spagnolo. Un rammarico: “Se avessi lavorato in Italia, avrei di certo imparato anche la vostra lingua”.
Si è improvvisato fotografo di una compagnia teatrale di Taiwan nel 1978, solo perché qualcuno gli ha messo in mano una macchina fotografica: “Nella mia famiglia non c’era l’abitudine di scattare ritratti”, spiega. Quando ha cominciato a sentirsi un artista, si è cambiato nome: Dukefeng, che in cinese significa “come il vento”.  Lo usa quando gira in Oriente (circa 50 film in totale), lasciando a Doyle il resto del mondo (circa 20). Una schizofrenia esistenziale e culturale mirabilmente evidenziata nei 6 minuti del meraviglioso video Christopher Doyle vs Dukefeng presente nel sito del suo prossimo film da regista, The White Girl (https://christopherdoylefilm.com/videos/)
E’ diventato famoso per la sua collaborazione con Wong Kar-wai, di cui ha girato 8 film, da Days of Being Wild a 2046, incluso quello che viene considerato il capolavoro comune: In the Mood for Love.
Ma ha lavorato con altri notissimi registi, Gus Van Sant, Barry Levinson, Jon Favreau, Phillip Noyce, Zhang Yimou, M. Night Shyamalan, Jim Jarmusch, Neil Jordan.
Ma giura di non aver mai fatto distinzione fra regista famoso o no, perché, come ha ripetuto a Cannes, adora lavorare con gli esordienti: “fanno un sacco di domande  stupide, ma hanno anche un sacco di idee originali. E mi costringono a lavorare più duramente, senza ripetermi”.
Ciak l’aveva incontrato per la prima volta a Shangai nel 2005 sul set di La contessa bianca di James Ivory, un film particolarmente sfortunato: ultimo per il produttore Ismail Merchant, partner di Ivory, e terzultimo per Natasha Richardson. Alla domanda su quale fosse il segreto della collaborazione fra regista e direttore della fotografia, rispose: “ubriacarsi insieme”. Oggi giura che con l’avvento del digitale non ha cambiato modo di lavorare, se non prendersi un pò di assistenti geek. Ma ama ancora imbracciare personalmente la macchina da presa.
Sceglie i film  per una serie di motivi che gli è difficile sintetizzare. Ma la storia è solo uno di loro, e nemmeno il più importante: “perché bisogna andare oltre le parole, altrimenti tanto vale starsene a casa a leggere un libro” (in particolare DH Lawrence, Vladimir Nabokov e Gabriel García Márquez). Ma subito aggiunge: “bisogna andare anche oltre le immagini, perché altrimenti tanto vale dipingere un quadro”. Ed ecco perché l’ambiente, il messaggio, la sperimentazione, sono decisivi. Purchè il risultato ottenuto non sia fine a se stesso, non sia in sintonia  soltanto con l’ego dell’autore, ma cerchi di comunicare con ogni singolo spettatore.
A Cannes, nella sala dell’Hotel Martinez in cui si è svolto l’evento intitolato China new forces, quando il discorso si stava facendo troppo teorico, e quindi secondo lui “noioso”, ha fatto partire una spettacolosa clip che era un breve riassunto di In the Mood for Love, senza parole, ma a tempo di musica. E ha concluso, da consumato  presentatore: “l’importante è essere sempre pronti e aperti all’amore”.
Marco Giovannini

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