L’altra Cannes: “Crack”, il corto che scava negli abissi della follia

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Oltre l’apparente serenità di una vita normale, la follia scava crepe, inaspettatamente si insinua nelle fessure dell’anima. “The insane grows inside like a crack”, appare sul finale la dedica del poeta amico Ali Hamam che in un verso racchiude il senso di Crack, il cortometraggio del giovane regista libanese, Mu’taz F. Salloum, selezionato allo Short Film Corner del Festival di Cannes.

“Ho avuto l’idea del corto quando accidentalmente nella mia vita mi sono imbattuto in diverse persone che, solo dopo tanti anni, hanno manifestato forme di insanità mentale”, così il regista spiega l’ispirazione del suo terzo cortometraggio, che a differenza degli altri riflette sulla psicologia umana, ma come gli altri nasce dalla sua storia personale. “A me piace fare film su esperienze che ho vissuto, così il cinema è più vero”. A insaputa delle persone che l’hanno ispirato, Crack racconta allora la storia di un’attrice che per studiare meglio il suo personaggio chiede al compagno di aiutarla a farsi ricoverare in un ospedale psichiatrico, complicando la loro già difficile relazione.

Mu’taz si immerge negli abissi di una mente malata, “ma in fondo chi non è folle?”, seguendo le crepe nella vita di una persona qualsiasi fino a sprofondare nella follia. “Crack mi sembrava il giusto titolo, perché la crepa generalmente inizia ad aprirsi sulla superficie di un muro fino a scendere in profondità”, riflette il regista che si lascia condurre da sguardi, allucinazioni e visioni di una persona apparentemente sana e allo stesso tempo intimamente folle. Il suo è un viaggio nel sommerso della psiche senza una destinazione certa: “mi piace che sia lo spettatore a decidere il finale del film”.

Una storia nella storia in un gioco di specchi tra il vissuto del regista e il racconto dell’attrice, Crack assomiglia a una scatola cinese. Dalla struttura complessa e la molteplicità di direzioni, la struttura del cortometraggio di Mu’taz fa pensare piuttosto a quella di un film: “Io non distinguo il corto dal lungometraggio, faccio film per raccontare la mia storia. Il cinema per me ora è il cortometraggio, se un giorno avrò maggiori mezzi e budget farò sicuramente un film”.

Tra giravolte e deviazioni della psiche, il filo conduttore della storia è la musica, composta per il corto da Zem, “uno dei primi artisti libanesi ad aver portato la musica underground nel mio Paese. Zem ha composto la colonna sonora prima di girare il film, quindi abbiamo dovuto adattare molte sequenze al ritmo della musica”.

Crack, dunque, è un viaggio tra le pieghe dell’anima, tra un’andata e un ritorno di una relazione di amore/odio che rispecchia il rapporto del regista con il suo Libano. Mu’taz assicura che non vuole parlare del Libano, eppure ammette “ho vissuto tutta la mia vita lì e ho tante storie da raccontare sul mio Paese”. Originario di Tripoli, laureato in cinema all’Istituto delle Belle Arti di Beirut, oggi Mu’taz continua a studiare cinema ma alla Sorbonne di Parigi. “Non avrei mai immaginato di lasciare il Libano, ma ero arrivato al punto in cui mi sono sentito costretto per motivi culturali, politici e sociali”, spiega il regista. “In Libano ogni città, addirittura ogni quartiere, è un mondo a sé in cui resistono ancora molti pregiudizi: io non sono mai riuscito a integrarmi davvero”. Estraneo al suo stesso Paese che descrive come assoggettato a tradizioni patriarcali e clientelari, Mu’taz ha ritrovato a Parigi la libertà e l’apertura mentale che mancavano a casa. “In Libano vige ancora un sistema di censura che deve approvare il film e rilasciare un permesso prima che sia distribuito. Il mio film, per esempio, è stato accettato tranne una scena di autoerotismo da rivedere”.

Dopo aver realizzato due cortometraggi nel suo Paese, un’opera sperimentale, One moment, e il documentario Door to door, Mu’taz non si rallegra troppo di essere stato selezionato allo Short Film Corner di Cannes, piuttosto ambisce alla selezione ufficiale mentre già lavora a nuovi progetti. “L’idea per il prossimo corto l’ho avuta quando un giorno, durante un corso di italiano al ventiduesimo piano di una sede della Sorbonne, è scattato l’allarme antincendio e siamo stati tutti costretti ad uscire dalle scale di emergenza. Solo allora ho guardato davvero le facce dei miei compagni di classe”. Il regista libanese sembra trovare altrettante fonti di ispirazione nella capitale francese che offre più sicurezza e opportunità ai giovani registi. “A Parigi posso filmare quello che voglio, parlare di quello che voglio, ma intimamente spero di tornare in Libano”.

Francesca Ferri

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