“L’amant d’un jour”: l’inconsueto, poetico ménage à trois di Philippe Garrel

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Pelle bianca, occhi neri, stradine in salita di una Parigi deserta. Il desiderio va in scena nel teatro dell’intimo dalla leggerezza del sogno e la sensualità della carne. L’amant d’un jour è il segreto ben nascosto nella Quinzaine des Réalisateurs, lontano da riflettori, star e tappeti rossi, di un superstite della post-Nouvelle Vague che ancora stenta a trovare il posto che merita nel cinema francese, sebbene i suoi film un posto l’abbiano già trovato. Philippe Garrel offre a un pubblico di affezionati la sua opera che sfugge al tempo e, attraversando epoche e generazioni, risplende di un’eternità sentimentale. Settantasei minuti in bianco e nero dipingono magistralmente le passioni umane con la grazia dell’artista che in pochi tocchi dà anima alla materia e poesia alla banalità.

Philippe Garrel riprende i motivi a lui cari, coinvolgendo per la prima volta anche la figlia Esther nel ruolo di Jeanne, figlia del professore di filosofia (Eric Caravaca) che, disperata, dopo essere stata lasciata dal fidanzato ritorna a casa del padre e scopre dell’esistenza della sua nuova compagna, Ariane (la rivelazione Louise Chevillotte), una delle sue studentesse. Un uomo, due donne, ecco ricomposta la trinità di Le lit de la vierge (1969).

Le due ragazze, entrambe di ventitré anni si assomigliano molto pur essendo completamente diverse. Jeanne, romantica e ingenua sognatrice, Ariane, un Don Giovanni al femminile. L’iniziale diffidenza tra le due donne costrette a condividere lo stesso uomo viene gradualmente superata da una crescente complicità femminile fatta di piccole bugie e cocenti rivelazioni. Così, se inizialmente Jeanne è ostile a quella che non può far a meno di confrontare con sua madre, in Ariane poi trova conforto alla sua malinconia e un invito a ritrovare la voglia di vivere.

Due donne, due volti della gioventù contemporanea in questo racconto in bianco e nero che ammicca agli anni ’60 per l’arguto sarcasmo, la prevalenza del dialogo, le discussioni sulla guerra d’Algeria, una certa fame di piacere, l’esistenzialismo. Philippe Garrel ritorna ad esplorare il dolore e la gioia di vivere, l’infedeltà, l’armonia e la rottura che però rinascono attraverso il suo sguardo teso a cogliere ogni minima vibrazione. Mai Garrel fu più sensuale come in alcune scene d’amore di L’amant d’un jour che scandagliano il volto della donna, non per giudicare il desiderio femminile ma per cogliere l’essenza dello slancio vitale.

Sono le donne in effetti a dominare la scena, sono le donne a prestare il loro punto di vista alla narrazione, rilegando l’uomo in secondo piano, incapace di azione. Eppure è attorno a questo curioso ménage à trois che il film ruota e si tiene in perfetto equilibrio. Una sorprendente simmetria speculare porta avanti il gioco tra i personaggi. Ognuno vive la felicità quando l’altro sprofonda nel dolore e viceversa. A qualsiasi promessa corrisponde un tradimento, a qualsiasi disastro una rinascita. Un’altalena di emozioni conduce verso il finale imprevedibile, perché niente è certo e tutto è mutevole nel mondo di Garrel che trasforma in immagini le più impercettibili vibrazioni dell’animo.

Il suo segreto è la ricerca della poesia celata nelle piccole cose. Una schiena nuda di donna allo specchio, le conversazioni sul tradimento in cucina, due amanti in un caffè che ricordano il loro primo sguardo, i capelli scomposti dopo una notte fuori casa, gli incontri casuali per la città, gli incontri segreti nelle toilettes dell’università, Parigi la notte, gli sguardi rubati, i baci desiderati. Garrel non teme il banale, piuttosto lo trasforma in poesia dalla grazia sublime. L’antico cantore dei suoi anni ’60 di gioventù e contestazione conserva il suo spirito di sempre, ma conquista una concisione e una forza espressiva mai raggiunte. A una voce femminile fuori campo lascia narrare la storia, per sė riserva l’incanto dell’immagine: quell’insostituibile potere di afferrare la fragilità dei sentimenti, la fugacità del tempo.

Francesca Ferri

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