Newyorkese, attore in produzioni presentate a Cannes, Berlino e Sundance ma anche visual artist (esposto alla Biennale e nei principali musei di Londra) e creative storytelling mentore per ‘College Cinema’ della Mostra di Venezia, è l’Head of Studies di settore Alec Von Bargen a presentare i quattro progetti della sezione ComedyLab del TorinoFilmLab, una delle regine di questa edizione, insieme alla già citata SeriesLab. Storie che sul palco 17° TFL Meeting Event arrivano accompagnate da “Maestri della commedia”, come li definisce lui, chiamati a fare “quel che fanno meglio” e a far emergere le idee che ‘ribollivano’ nelle teste dei creatori selezionati.
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“È stato un anno di crescita, di generosità e di collaborazione – dice parlando di quello condiviso con gli autori e i performer invitati. – Mesi passati improvvisando, urlando, odiandosi, scappando e trovando il modo migliore per dire quel che volevano dire e dare vita a queste storie meravigliose“, in ogni modo, senza farsi condizionare dal pedigree dei comedians chiamati ad affiancare i veri protagonisti. I partecipanti “messi alla prova” dal TFL ComedyLab, il primo del suo genere in Europa, nato – come da descrizione ufficiale – con “l’idea di mescolare insieme quattro diversi progetti internazionali (sia nello stile sia nell’anima) in partnership con quattro artisti/comici dalla lingua tagliente, spiritosi e generosi”, attraverso “una combinazione di esercizi multidisciplinari e di improvvisazione, oltre a sessioni intensive di scrittura“. Della quali oggi si vede il risultato:
Questi i quattro progetti del ComedyLab 2024:
Honeyjoon
Unico caso tra quelli presentati, la regista Lilian T. Mehrel sta girando ed è sul set, per cui il palco è tutto della Kate Jammes che si presenta come “comica approvata dal governo” e come “beautiful” canadese e inaugura la sessione con un vero pezzo di stand up comedy che scava nel proprio personale, familiare e femminile, passando dal bodyshaming alle anomalie del rapporto delle donne tra loro e con l’immagine che la società esige da loro.
A seguire un video con la presentazione di una “sexy dark comedy” su un viaggio madre-figlia “in una bellissima isola al largo della costa del Portogallo, nelle Azzorre, il luogo perfetto per una romantica luna di miele, e tu sei lì, tra coppie felici ovunque, con tua madre, per il primo anniversario della morte di tuo padre”.
Un film che sta venendo realizzato con il sostegno del TorinoFilmLab, ma anche del Cine Qua Non Storylines Lab e alla vittoria del Tribeca Programma AT&T Untold Stories che gli ha portato un milione di dollari. Un film, come lo sintetizza la regista, “sulla celebrazione dell’essere vivi e di tutta la luce e l’oscurità che ciò comporta, per chi desidera sentirsi libero nel proprio corpo, per chi vive nel dolore, per chiunque abbia provato e fallito a flirtare”.
Trama: La curdo-iraniana Lela (Amira Casar) e la figlia americana June (Ayden Mayeri) vanno in viaggio nelle romantiche Azzorre per il primo anniversario della morte del loro amato marito/padre. June spera che l’isola le riporti in vita, come è successo a suo padre. Ma circondata da sposi in luna di miele, Lela sprofonda sempre di più. June cerca il piacere, nonostante la mancanza di privacy. Lela sveglia June scorrendo tristi notizie dall’Iran, tutte sulla libertà della vita femminile, nonostante abbia coperto il corpo in bikini di June tutto il giorno. Grazie a Dio la loro guida turistica è sexy. Ma João (José Condessa), un surfista filosofico, è più attratto dai discorsi profondi di Lela che dal flirt di June. Lela si ritrova a tornare in vita. E June si ritrova sola sul sedile posteriore. Quando le notizie dall’Iran abbattono di nuovo Lela, June mostra le sue donne che ballano coraggiosamente senza veli. Poi scopre gli antidepressivi segreti di Lela: a quanto pare, erano del padre. Non ha mai voluto parlare del suo dolore, tale padre, tale figlia. Per l’anniversario, Lela sorprende June nuotando in mutande. Ma cerca ancora di coprire June. June esplode e si separano. June ha finalmente la possibilità di una fuga sexy con João. Ma finisce per liberare tutte le sue lacrime, mentre Lela trova piacere in hotel. Si scopre che sentirsi vivi include sentire… tutto. Riuniti dopo, ballano per tutte le donne che non possono.
Midlife
Attore, scrittore, improvvisatore, ristoratore, clow, stand up comedian, caratterista (“lo so sono un mucchio di cappelli, ma… amanti dei cappelli, amatemi!“), Mike Kunze si presenta sul palco con un pesce rosso in una busta (“un pesce finto, nel caso qualcuno si stesse preoccupando“) e continua a parlare di sé, aggiungendo con una curiosa modestia: “Siete qui per i progetti, non per la storia della mia vita. Una grande storia! Con tutto dentro, dramma, redenzione, cavalli …e sorprendentemente commerciale, anche. Ma non siete qui per me“, prima di dirsi “onorato, toccato e commosso dal film e dal personaggio principale Igor”, in onore del quale ha scritto un monologo che inizia con “non posso essere il vostro donatore di sperma” e continua spaziando dalla vasectomia al figlio che la sua ex moglie ha avuto con il suo nuovo fidanzato.
Prima di lasciare spazio, ormai scaldato il pubblico, al regista di Midlife, l’ucraino Oleksii Sobolev che avverte: “Non riguarda la guerra russo-ucraina. Be’, non esattamente”. Un road movie nel quale l’amicizia di Egor e Zofia viene messa alla prova da bombardamenti e occasionale sesso a tre. “Sì, per molti versi questo è un film sull’amicizia e sulla sua importanza in questi tempi moderni – conclude. – Un’amicizia molto insolita in tempi estremamente insoliti”.
Trama: Egor torna in Ucraina dopo sei anni in America. L’invasione russa su vasta scala è avvenuta. I confini sono stati chiusi. Egor è bloccato, incapace di tornare da sua moglie e suo figlio a New York.
Sua moglie non ha ancora divorziato da lui (sarebbe troppo duro), ma ha un nuovo compagno. E il figlio di Egor si sta abituando ad avere un altro uomo intorno. Egor farebbe di tutto per riunirsi a suo figlio per il suo compleanno ed essere lui a insegnargli ad andare in bicicletta.
Egor ha bisogno di documenti da volontario per lasciare l’Ucraina. E la sua vecchia amica Zofia, che si reca regolarmente in Polonia per aiuti umanitari, ha quei permessi.
Zofia si sta riprendendo dalla rottura con la sua ragazza e sogna di diventare madre da sola. Pensa che Egor potrebbe essere il donatore perfetto.
Egor è d’accordo. Accetterebbe qualsiasi cosa se significasse andarsene dall’Ucraina. Ciò che Egor non le dice è che si è sottoposto a una vasectomia negli Stati Uniti.
Mentre si dirigono verso il confine ucraino, Zofia ed Egor riscoprono ciò che un tempo li aveva resi migliori amici. Ma la loro relazione sopravviverà alla bugia di Egor?
È una commedia romantica senza romanticismo. È un film su persone che cercano felicità e amore in un mondo capovolto.
The Last Queen
A introdurre Stefano La Rosa e Luca Ranucci – co-registi, nonostante l’errorino sull’immagine – e la loro giocosa presentazione (perfettamente a tono con tutte le altre), ci pensa Tatiana Delaunay, francese da parte di padre e italiana da parte di madre (“il ché significa che sono cresciuta molto ben nutrita e in un ambiente altamente drammatico”) trasferitasi in Norvegia all’età di 11 anni ed educata in una scuola cattolica (“crescendo ho iniziato ad associare il piacere con la colpa e il dolore con una vita ben vissuta”), una serie di traumi che evidentemente non ha ancora superato e che oggi ci regalano perle come questa: “Penso che mettere al primo posto i bisogni degli altri, sia incredibilmente bello. In realtà, penso che ci sia stata una deformazione culturale del principio da qualche parte e in Italia ha dato vita a un esercito di martiri, ovvero madri e nonne che in qualche modo hanno capito che rendere felici gli altri significava automaticamente negare a se stesse le proprie speranze, i propri sogni e qualsiasi potenziale ambizione“.
Tocca ai due registi, poi, parlare di italianità, della affascinante Venezia e – a cinque chilometri di distanza – di “una campagna industriale, piatta e grigia, piena di zanzare d’estate e di nebbia d’inverno, tanto tanto alcool, un luogo dove non c’è tempo per il piacere e dove reprimere i desideri è visto come un punto di forza… praticamente dove abbiamo trascorso ogni Natale negli ultimi dieci anni. Ma anche il posto dove vive la nostra protagonista Lorena, che ha cinquant’anni, lavora in un bar e non ha tempo per sé, si occupa sempre di qualcosa o aiuta qualcuno. E segue la regola non detta di questo posto: Metti gli altri al primo posto, altrimenti sei un’egoista. E questa è la cosa peggiore che potresti essere… Praticamente sua madre“, dice Renucci, dando un senso al monologo precedente e sintetizzando il progetto come “un film sulla repressione dei desideri dietro il culto del lavoro, della sicurezza, del ruolo che ti è stato dato, un film sul permetterci di sognare e sulla bellezza di perdersi e non sapere chi siamo”.
Trama: Una cittadina sulla laguna di Venezia. Lorena è una donna di mezza età, oberata di lavoro, della classe operaia, con una famiglia. È orgogliosa della sua reputazione di donna seria, altruista e madre devota. Un giorno, a una fiera locale, una guaritrice sul palco la identifica come la reincarnazione di Maria Antonietta. Lorena e la folla scoppiano a ridere, ma una vecchia contessa su una sedia a rotelle, in stato semi-vegetativo, riprende conoscenza vedendola e piange per l’emozione di incontrare Maria Antonietta. Il custode della contessa implora Lorena di stare al gioco: è la prima volta che la donna si sveglia da mesi! Lorena, che non sa dire di no alle persone bisognose, finge di essere Maria Antonietta per la signora. E da questo momento Lorena inizia a interpretare segretamente Maria Antonietta sempre più spesso per la vecchia nella sua villa in rovina, isolata in mezzo alla laguna. Porta oggetti di scena, inventa nuovi numeri e idee… Sostiene di essere felice di aiutare, ma più torna, più scopre un lato giocoso, infantile, libero di sé che fino a quel momento le era sconosciuto e che ora pretende di esistere. In questa villa tra la terra e l’acqua, Lorena si avvicina inaspettatamente ai suoi desideri più profondi e scopre la bellezza di perdersi.
Bootleg
“Buongiorno a tutti!”, saluta (in italiano) dal palco Cecilia Gragnani, trasferitasi a Londra 15 anni fa (“sono stata molto coraggiosa, ma solo per rendermi conto che è fondamentalmente come vivere in Italia, siamo tutti lì! State attenti“) e che introduce quello che presenta come “un film molto importante sulla libertà sessuale delle donne” senza uscire dal tema e con una discreta dose di ironia…
Partendo da: “Mi sono chiesta, perché? Perché io? Era perché il mio desiderio sessuale permea ogni stanza in cui entro? O perché ho timidamente raccontato che una volta possedevo un dildo? Il fatto è che non mi sento molto a mio agio a parlare di sesso ed è per questo che lo farò per la prima volta oggi di fronte a un pubblico di professionisti del settore“. E concludendo con: “Mia figlia di cinque anni è molto più consapevole del suo corpo di quanto io non lo fossi del mio. Ad esempio, sa esattamente come nascono i bambini. Sa da dove vengono e come. Un giorno, quando ha compiuto due anni, l’ho fatto e basta. L’ho fatta sedere davanti alla TV e le ho mostrato il film Alien, poi non ha fatto più domande. E vedete, questa è davvero la bellezza e il potere del cinema. Ci educa. Ci mette davanti uno specchio della natura. Ci permette di sentirci meno strani, meno soli. Ci dà davvero voce. E, nel migliore dei casi, può cambiare il mondo. Proprio come il prossimo progetto”. Quello della egitto-canadese Reem Moris.
Che parte giocando con il pregiudizio che circonda una ragazza musulmana in volo da Los Angeles a Il Cairo, una potenziale terrorista, con qualcosa intorno alla vita, sotto la sua giacca… una cintura di dildo. È la scena d’apertura del suo film, “una commedia femminista su Roukaya, una donna egiziana insoddisfatta dal matrimonio che scopre il piacere sessuale attraverso i sex toy e torna in Egitto per avviare un’attività in Egitto illegale, rischiosa e pericolosa”, che comporta una distribuzione simile a quella di metanfetamine di Walter White in Breaking Bad.
“Un film di empowerment femminile sul diritto al piacere sessuale” da parte di un gruppo di donne “disposte a rischiare reputazione, sicurezza e libertà” che poggia sulla lunga esperienza fatta dalla regista con Human Rights, lavorando sullo sfruttamento e la violenza sessuale, il traffico di esseri umani e la protezione di donne e bambini: “tutte le cose che mi hanno ispirato, – come conclude, – e vorrei realizzare film e progetti televisivi usando il genere della commedia per parlare di ciò di cui sono stata testimone ben prima di diventare una regista”.
Trama: Bootleg racconta la storia di Roukaya e delle sue amiche i cui sogni di felicità sessuale durante le loro notti di nozze vengono infranti. Parlando con sceicchi, figure religiose e familiari delle loro frustrazioni, viene chiesto loro di pregare per combattere gli impulsi sessuali, ma falliscono. Roukaya ottiene inaspettatamente l’accesso ai sex toy, portando il marito a divorziare da lei. Con le loro diverse circostanze sociali, esigenze finanziarie e frustrazioni sessuali in aumento, decidono di fottere il patriarcato e replicare i sex toy troppo costosi di Roukaya. Avviano un rischioso business clandestino di produzione di sex toy usando giocattoli cinesi da vasca da bagno e inserendo una vibrazione elettrica all’interno e vestendo i dildo come piccole bambole, per citarne alcuni. Poiché non hanno il know-how, cercano l’aiuto del padre mezzo cieco di Shadia per aiutarli a creare i giocattoli. Dopo molti incidenti, tra cui piccole scosse elettriche, scintille e dita sanguinanti, alla fine ci riescono. Per distribuire i giocattoli, ricorrono alla loro versione di “feste Tupperware”, dove insegnano alle donne come usare i giocattoli, usando pollo congelato per dimostrare l’uso dei giocattoli sessuali, così come altri metodi colorati. Mentre le donne accorrono nella loro attività, mentre il governo si avvicina a loro, devono trovare un modo per mettersi in salvo.