Nella sezione Generator 16+ del Giffoni Film Festival è passato in anteprima El ladrón de perros (Ladro di cani), l’opera seconda di Vinko Tomicic (El Fumigador), una co-produzione (già al Tribeca e a Guadalajara, e nelle nostre sale in autunno) che coinvolge anche l’Italia con Movimento Film, assieme a Color Monster (Bolivia), Calamar Cine (Cile), Machete Producciones (Messico), Easy Riders Films, (Francia) e Aguacero Cine (Ecuador).
Siamo a La Paz (dove il cineasta è nato nel 1987), in Bolivia, e il “ladro di cani” del titolo è Martín, un tredicenne orfano le cui giornate scorrono mestamente tra una scuola dove è emarginato e schernito dai compagni e l’attività di lustrascarpe per le strade della città. Fra i suoi clienti, il ricco sarto Novoa, molto legato al suo pastore tedesco Astor. Con la complicità di un amico, Martín rapisce il cane e lo tiene nel cortile della casa di un’anziana aristocratica, dove il ragazzo vive di nascosto grazie all’aiuto della domestica. Fingendo di aiutare Novoa a cercare l’animale, Martín spera così di guadagnarsi l’attenzione e la fiducia dell’uomo. E, forse, anche il padre che non ha mai avuto.
«Nel mio precedente lavoro, ho esplorato il tema del rapporto tra genitori e figli», spiega il regista intervistato da Ciak, sottolineando come stavolta volesse mettere a fuoco «prima di tutto i sentimenti, la ricerca di amore» del personaggio principale. L’idea per il film nasce da una reminiscenza dell’infanzia, trascorsa in una piccola città nel Nord del Cile: «Mi ricordo di un giovane lustrascarpe che lavorava molto vicino a casa mia. Ho preso quest’immagine per creare una nuova storia».
Che fa venire in mente, e non solo per i temi toccati, il cinema di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, da Sciuscià a Umberto D.: «Naturalmente conosco il Neorealismo italiano, ma non avevo mai visto questi film», confessa Tomicic, che però durante la post-produzione ha recuperato Ladri di biciclette. Un «omaggio involontario», dunque, ma favorito dalla scelta di set naturali e attori non professionisti. Come l’esordiente che interpreta Martín, Franklin Aro: «L’ho scoperto in un casting tra i lustrascarpe in Bolivia». Per il regista era importante che facesse lo stesso mestiere del protagonista anche nella vita reale («Se fai quel tipo di lavoro fin da piccolo si riflette anche nel corpo»). E Aro aveva in più «uno sguardo speciale e un’energia» tali da renderlo perfetto per il ruolo.
Il contraltare, nei panni di Novoa, è però un fuoriclasse come Alfredo Castro (acclamato volto del cinema di Pablo Larraín, tra le altre cose, e visto di recente in El Conde e Los colonos): «È un attore incredibile, uno dei più famosi dal Cile e di tutto il Sud America: sono cresciuto guardando i suoi film, ho sempre voluto lavorare con lui. L’ho conosciuto di persona a un festival nel 2016. Ci siamo tenuti in contatto e un giorno gli ho mandato la sceneggiatura, mi ha risposto che l’aveva amata, è stato uno dei primi a credere nel progetto. Un sogno, per me!».
Al fascino del film contribuiscono le musiche, scritte dal francese Wissam Hojeij: «È un grande compositore, ho parlato con lui, l’idea era di non ricorrere agli stereotipi della musica tradizionale andina. Se tu guardi i film boliviani, senti sempre la stessa musica! La nostra sfida è stata creare qualcosa di nuovo. Lui ha lavorato a partire dal suono della tromba, che per il personaggio di Martín è un simbolo: attraverso questo strumento cerca di trovare la sua identità».