IL FATTO – Il film (premiato a Sarajevo, a Torino, ad Amsterdam e al Festival Cinéma du Réel) della regista e ricercatrice macedone Kumjana Novakova è un video-saggio composto interamente da immagini d’archivio e testimonianze usate come prove nel processo (condotto dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia) sulle sistematiche violenze sessuali compiute dall’esercito serbo ai danni delle donne e bambine bosniache musulmane nel campo di prigionia di Foča, durante il conflitto dei primi anni ’90. Si tratta del primo procedimento di una corte internazionale dove la schiavitù sessuale e lo stupro sono stati perseguiti come crimine contro l’umanità e non solo come crimine di guerra.
L’OPINIONE – «Dobbiamo combattere tutti gli impulsi a mitizzare l’orrore», dice Hannah Arendt nella citazione che apre Silence of Reason (presentato fuori concorso al VII Euro Balkan Film Festival di Roma, accompagnato da una performance della regista). Che non a caso, in sessanta minuti emotivamente destabilizzanti e cinematograficamente potenti, previene ogni possibile deriva sensazionalistica o spettacolarizzante, combinando il rigore di un doc d’inchiesta e lo straniamento estremo (che fa pensare, per certi versi, a La zona d’interesse di Jonathan Glazer) di un’opera sperimentale.
Non c’è (quasi) nessuna figura o voce umana a cui appigliarsi nei video sgranati (dove la bellezza della natura, evocata anche dai versi degli animali, contrasta con l’inferno dei fatti accaduti) e nelle foto (su sfondo blu elettrico da vecchio videotape) di spazi della ex quotidianità (alberghi, scuole) deserti, e di cui le didascalie con i racconti delle superstiti rievocano l’utilizzo per la tortura e annichilimento dell’altro (anzi, dell’altra). A restituirci l’azzeramento di ogni argine (ragione, etica, empatia) al trionfo della barbarie, la cancellazione della persona nella sua libertà e dignità, riafferma tuttavia nelle parole di coloro che dall’abisso sono riemerse per farcelo conoscere.
Ma è anche il nostro rapporto con i media, con le immagini, con la Storia ad essere sotto processo, in un dispositivo filmico che decostruisce i codici tradizionali tramite cui le peggiori atrocità sono trasmesse, elaborate, vendute, manipolate per un pubblico sempre più saturo e passivizzato. E così, oltre a trattenere e incidere nelle coscienze la memoria di quanto accaduto, il film di Novakova sembra invitarci a rompere criticamente gli schemi di una comunicazione, di ogni comunicazione, che normalizza le atrocità cui assistiamo, dal balcone dei nostri privilegi.
SE VI È PIACIUTO GUARDATE ANCHE… Il già citato La zona d’interesse, e i doc di Ines Tanović A Day on the Drina (2011) e Živi spomenik (2012), anch’essi focalizzati sulle pagine terribili della guerra serbo-bosniaca.