«Il primo atto di resilienza dell’era Trump»: così il regista Mario Martone, ironico ma forse non troppo, ha definito l’evento di mercoledì 6 novembre alla Casa del Cinema di Roma, chiudendo in bellezza la giornata inaugurale del VII Euro Balkan Film Festival (che prosegue sino al 12 del mese, anche al MAXXI e al Nuovo Cinema Aquila) con la proiezione del suo lungometraggio Teatro di guerra (1998), alla presenza di diversi componenti del cast, come Iaia Forte, Andrea Renzi, Francesca Cutolo e Anna Bonaiuto, che ha affiancato il cineasta nel dialogo introduttivo moderato da Steve Della Casa.
In effetti, quel film figlio del terribile conflitto serbo-bosniaco e candidato a numerosi Nastri d’argento e David di Donatello (vincendo quello per il montaggio di Jacopo Quadri) sembra la perfetta antitesi alla violenza (bellica e non solo) e alle semplificazioni fuorvianti del nostro tempo. Grazie alla complessità, non disgiunta dalla vitalità espressiva, della sua struttura, dove la «guerra fratricida che ha spaccato la ex Jugoslavia» (come la definisce Martone sintetizzandola a beneficio dei molti spettatori giovani in sala), e in particolare l’assedio di Sarajevo (per il cineasta «città meravigliosa, come fosse Firenze, colta, piena di giovani, di artisti») non sono rappresentati direttamente ma evocati in un gioco meta-teatrale e meta-cinematografico.
S’intrecciano infatti il piano della finzione, con un giovane regista di teatro (Renzi) che nella Napoli dei Quartieri Spagnoli organizza un allestimento contemporaneo e sperimentale dei Sette contro Tebe di Eschilo da portare a Sarajevo, e i momenti di una vera messa in scena curata da Martone nel 1996-97. A sua volta si valorizza la specificità del linguaggio filmico, per esempio nella scelta di girare in 16 mm e usando la macchina a mano, restituendo l’impressione di caos esteriore e interiore che grava sui personaggi-attori (di cui sono messi a fuoco anche i problemi personali), ma anche la forza, a tratti disperata, del loro tentativo di opporre la creatività e la solidarietà agli orrori del mondo.
Un modo, anche, per elogiare quella voglia «di non soccombere culturalmente» (rammenta Martone) che animò in quegli anni atroci i cittadini di Sarajevo, determinati comunque a non cessare le attività teatrali, musicali, cinematografiche, anche col supporto di molti artisti dall’estero. «Questa cosa mi colpì», spiega il regsita. «L’Italia è un paese che ha dato molto dal punto di vista della beneficienza ma dal punto di vista culturale ci si teneva un passo indietro. Dall’altro lato dell’Adriatico persone come noi si stavano sparando addosso e noi non riuscivamo ad avere un pensiero, era molto complicato districarsi, per quanto per me fosse molto chiaro chi fosse l’aggressore e chi l’aggredito».
Una confusione che per il filmmaker si rispecchia in quella odierna, anche perché l’overdose di informazioni e immagini («Più vedevamo meno capivamo») è proseguita e aumentata, a dismisura. «Si dice che il Novecento sia cominciato a Sarajevo, ma è anche finito a Sarajevo, ed è iniziato il nostro tempo». Dove le guerra chiamano tanto più in causa il «rapporto tra rappresentazione, immagini, loro proliferazione e svuotamento di senso: noi siamo nel bel mezzo di questo svuotamento di senso».
Sullo sfondo dei grandi temi sollevati da Teatro di guerra abbiamo la città partenopea, ma il regista specifica: «L’ho fatto lì perché sono napoletano, ma poteva essere fatto in qualunque città europea: mi piace pensare a Napoli come a una città europea, con le sue caratteristiche. Che sappia parlare al mondo non soltanto attraverso il folclore, i suoi eccessi o la sua magnifica pizza». La Napoli del cinema di Martone, perciò, è osservata «non dal punto di vista della eccezionalità, ma della sua realtà di città come le altre città. Si può calcare e si calca moltissimo la mano su Napoli, il mio è un modo più discreto».
Presente in sala anche il produttore e distributore del lungometraggio, Andrea Occhipinti, ringraziato da Martone per aver scommesso su «un film pazzo» come Teatro di guerra. Nel quale, dopo L’amore molesto, il cineasta tornava a dirigere Anna Bonaiuto: «Si partiva sempre da cose per cui i personaggi somigliavano a chi li interpretava», racconta l’attrice a proposito dell’esperienza su quel set, specificando che, della Sara Cataldi impersonata nel film, il tratto più vicino a lei è che «non ho mai sopportato l’improvvisazione».