Se non ci si lascia spaventare dall’imponente quantità di titoli, la 19ma Festa del Cinema di Roma può offrire scoperte che non si dimenticano: magari tra i documentari, magari tra le Proiezioni speciali. È il caso di San Damiano, film di Gregorio Sassoli (anche produttore per Red Sparrow) e Alejandro Cifuentes che speriamo di vedere presto distribuito in sala. Perché, con la forza dei veri pugni nello stomaco, ci immerge nel microcosmo della romana Stazione Termini, mostrandoci in particolare la quotidianità delle persone senza fissa dimora che, per periodi di tempo più o meno lunghi, vi si stabiliscono.
Come lo straordinario outsider che dà il titolo al film, Damian Eugeniusz Bielicki, trentacinquenne di origine polacca giunto nella Capitale italiana con 50 euro in tasca e il sogno di diventare cantante. Facendo di una torre delle antiche Mura Aureliane la sua nuova casa. «L’incontro con lui», racconta Sassoli a Ciak, «è stato una coincidenza, noi avevamo deciso di dormire una notte a Termini e lui era arrivato il giorno prima». I due registi infatti si trovavano lì per lavorare a un’opera di fiction incentrato su una senza fissa dimora della stazione: «Avevamo già scritto parecchio, ma pensavamo fosse necessario vivere almeno una notte come la nostra protagonista», spiega Cifuentes.
A travolgere il progetto iniziale (che resta incompiuto) interviene però la realtà, incarnata appunto, e prima di tutto, da Damian, che subito li stupisce con una battuta e improvvisa davanti a loro un brano rap. «Abbiamo iniziato a riprenderlo qualche giorno dopo averlo conosciuto», ricorda Sassoli. Il primo risultato è un corto di 15 minuti (premiato al festival Visioni Italiane della Cineteca di Bologna), da cui poi prende forma l’omonimo lungometraggio documentario. Dove lo sguardo si allarga su altri “invisibili” che trascorrono i giorni e le notti all’aperto, col loro carico di perdite, dipendenze, rabbia, difficoltà materiali e psicologiche: tra questi, Sofia, che instaura con Damiano una relazione dove non mancano esplosioni di violenza, e poi Alessio, Christopher, Costantino, Vincent, Dorota, Felice.
In tutto, i filmmaker trascorrono due anni dentro questo mondo, uno da volontari della Comunità di Sant’Egidio e un altro per le riprese. «Noi eravamo già affascinati da Termini», specifica Sassoli, «un luogo dove il tempo è un po’ sospeso e c’è questa dicotomia fra chi viaggia, transita, e chi ci vive, compreso il sottobosco di microcriminalità, tra spaccio, tassisti abusivi e cose del genere». E figure, aggiunge Cifuentes, «in conflitto col normotipo che la società si aspetta». Infatti, a passare tanto tempo con persone come Damian e i suoi compagni di strada, viene meno «il falso mito con cui a volte ci giustifichiamo nel volgere lo sguardo dall’altra parte». Ovvero, quello dell’individualismo (classista), per cui la responsabilità della condizione in cui ti trovi è solo tua (e non del sistema con le sue diseguaglianze e contraddizioni).
Un’idea un po’ figlia «del modo di vedere di oggi, secondo cui tutto è colpa o merito del singolo», prosegue Cifuentes. «Noi perciò tendiamo a pensare che la loro sia una scelta, ma abbiamo scoperto che non è per niente così, anche se alcuni raccontano di averlo fatto per essere liberi. Come entri nella loro comunità, ti rendi conto non solo che questo non è vero, ma anche che quel mondo non è affatto così “libero”: ha delle regole tutte sue, la stessa Stazione è divisa in zone, etnie, livelli di pericolosità e criminalità. Lì abbiamo capito che non esiste una comunità, per quanto folle o anarchica, che non abbia delle regole, sia pure la regola del più forte».
Non è un caso se, guardando San Damiano, viene in mente la poetica di Pier Paolo Pasolini e la sua rappresentazione (non solo) del sottoproletariato romano, anche e soprattutto per il carico di disperate, vitalissime contraddizioni di cui sono portatori questi uomini e donne fuori dal recinto delle categorie morali (e di altri privilegi) borghesi. L’umanità mostrata nel doc vive di contrasti fra amore e odio, attaccamento alla vita e ombra incombente della morte e, ci suggerisce già il titolo del film, sacro e profano. «Il sacro è presente tra gli emarginati», afferma Sassoli.
E, forse, lo è anche di più, come dice Cifuentes: «In questi luoghi abbiamo trovato molta più comunione con il sacro, rispetto alla quotidiano di una società immersa nei propri appuntamenti, nelle proprie faccende, nelle proprie individualità. Lì invece si è così vicini a Dio che si è anche pronti a insultarlo, in un certo senso. Si respira questa dimensione mistica». Anche, magari, nel suo contraltare infernale.
Il doc allora, sintetizza il regista, «cerca di capire la società andando dove la società non guarda». Offrendo, a modo suo, anche una riflessione sull’atto creativo, date la prorompente espressività e le aspirazioni musicali di Damian, impossibili da ingabbiare in una forma convenzionale. E perciò, forse, anche da “vendere” sul, pur onnivoro, mercato culturale odierno («Io sono un artista, non un commercialista!», protesta lui a un certo punto). «Damian gioca con il linguaggio», rimarca Sassoli, «a volte in maniera apparentemente inconsapevole, con un intuito incredibile». «Usa la lingua in modo realmente emotivo, molto potente», commenta Cifuentes, «nella musica si sente ancora meglio».
Inevitabile, allora, che fosse lui a rubare la scena nel lavoro dei due cineasti: «Quando stavamo montando il corto», racconta Sassoli, «ci siamo detti che mancava una scena che rappresentasse la solitudine. Quel giorno a Termini c’era brutto tempo. A un certo punto, Damian si avvicina a un palo in Piazza dei Cinquecento. Noi siamo a una certa distanza, lui abbraccia il palo, ed ecco comparire un fulmine nel cielo. Mi avvicino con la telecamera, e lui inizia a cantare “Non ho nessunoooo… E non sto beneeee…”. Era come se sapesse esattamente quello che volevamo: l’attore ideale, non gli devi neanche dire cosa fare e lo fa!».
Il film integra anche alcuni brani del protagonista (mentre l’artista underground Damiano Colosimo, proveniente dalla scena rave, firma la colonna sonora), e alcune riprese da lui stesso realizzate. «Era un senzatetto molto atipico», rammenta al riguardo Cifuentes, «aveva un completo gessato sopra e sotto, con un felpone, le scarpe da ginnastica e un tablet. Col tablet si riprendeva, faceva questi video, non era chiaro per chi. A un certo momento, quando Christopher, il primo con cui crea un legame, scappa, gli ruba il tablet. Io allora gli regalo il mio I-Phone e scopriamo che lui raccoglieva del materiale incredibile. Per noi era necessario integrarlo, perché è il suo, e loro, punto di vista, cioè proprio quello che cercavamo di adottare noi».
Senza arretrare nemmeno di fronte agli episodi e alle immagini più crude: «Siamo entrati così tanto dentro il loro mondo che, come non si stupiscono loro, a un certo punto quasi non ci stupivamo più noi», riflette Cifuentes. «Abbiamo scelto di far vedere tutto», sottolinea Sassoli, «senza edulcorare né drammatizzare». Raccontando dall’interno: «Né al di sopra, né al di fuori».