IL CINEMA MORALE DEI DARDENNE DIVIDE CANNES

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Il decimo film dei fratelli Luc e Jean-Pierre Dardenne, La fille inconnue, presentato ieri in concorso al Festival di Cannes, ruota intorno a una di quelle scelte morali che da sempre coinvolgono i personaggi creati dai due registi belgi. Questa volta la giovane e scrupolosa Jenny (Adèle Haenel, già premiata col César l’anno scorso per The Fighters), dottoressa di Seraing, in provincia di Liegi, decide di non aprire la porta a chi ha appena suonato il citofono un’ora dopo la fine del suo turno di lavoro. Ma il giorno dopo scopre che la ragazza di origini africane trovata uccisa vicino a un canale è proprio la persona che aveva cercato di entrare nel suo ambulatorio. Nessuno sa chi sia quella giovane e a nessuno sembra importare granché, e invece Jenny comincia a cercare le persone che sono collegate a lei.

Non convince del tutto La fille inconnue, che troppo preso dal suo meccanismo sembra mancare della vitalità e dell’imprevedibilità che caratterizzano precedenti film dei Dardenne, eppure affronta un tema forte come la necessità di assumersi delle responsabilità personali proprio mentre quelle collettive sembrano perdute. “Con la sua determinazione – dicono i Dardenne, sulla Croisette anche in veste di coproduttori di Pericle il nero di Stefano Mordini, domani al Certain Regard – Jenny ottiene che alcune persone confessino la verità sul loro legame con la ragazza morta. Sono tutti un po’ responsabili, se non addirittura colpevoli, di quello che è accaduto”.

“Noi realizziamo film che poi appartengono agli spettatori, ognuno può leggerci quello che vuole. Non vogliamo dare messaggi, ma seguire il percorso umano del singolo, che poi naturalmente agli occhi del pubblico diventa lo strumento per analizzare i meccanismo dell’intera società. Ma le questioni morali sono sempre individuali, ciascuno si assume delle responsabilità oppure no e Jenny è una donna che sceglie di non voltare la testa dall’altra parte, di fare in modo che la gente intorno a lei cambi”.

Dopo tanti anni il loro metodo di lavoro non è cambiato. “Diamo il tempo agli attori di provare e trovare il proprio personaggio, attenti ai gesti, più che alle parole, per restituire il loro stato d’animo. E non illuminiamo mai artificialmente la scena che giriamo, tutto deve essere naturale, spontaneo per dare l’impressione che le cose accadano lì per la prima volta, che non siano precostruite. Non parliamo troppo tra noi, ma non è necessario, ci conosciamo da molto tempo, siamo una persona sola”.

Assai più deludente invece Ma’ Rosa del filippino Brillante Mendoza che nella squallida periferia di Manila ambienta la storia di Rosa e Nestor, arrestati quando la polizia scopre un traffico di droga nel loro negozietto di alimentari. Per pagare la scarcerazione dei genitori, i quattro figli devono trovare dei soldi, in fretta e a qualunque costo. Niente di nuovo sotto le luci al neon delle Filippine secondo Mendoza che punta il dito contro la corruzione della polizia. Ma lo fa senza una vera idea di messa in scena, con la voglia di mostrare tutto il brutto possibile, con lo stile semidocumentaristico che caratterizza tutti i suoi film, ma che questa volta dimostra i limiti di un approccio divenuto di maniera.

Alessandra De Luca