IL GENIO DI SPIELBERG C’È ANCHE IN TINTIN

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Sosterrò, in queste righe, una tesi lontana dallo “spirito del tempo” che si è manifestato, in forma quasi unanime, nel giudizio su un film girato da un celebrato maestro del cinema mondiale.

Mi è capitato spesso di non condividere pareri che, passando simultaneamente dalle pagine dei giornali ai commenti degli spettatori, finiscono con lo stroncare, spesso con sprezzo totale, questo o quel film. Nei confronti delle opere dei “maestri” si oscilla tra un atteggiamento rispettosamente assolutorio e una spietatezza iconoclasta senza confini. La premessa è necessaria per spiegare la tesi che vorrei sostenere, sfidando il senso comune: Le avventure di Tintin: il segreto dell’Unicorno di Steven Spielberg è un film importante, forse decisivo nella storia dei mutamenti del linguaggio e dell’industria cinematografica. Non mi riferisco qui al contenuto, peraltro apprezzabile, di una storia, estratta dal genio figurativo di Hergé, che ha allietato generazioni di bambini con il personaggio di Tintin, un perfettino venerato dai supporter di Topolino e guardato con sospetto dagli “irregolari” che invece amano Paperino. Tintin ha sempre ragione, ci azzecca sempre, vince sempre. Eppure il suo essere un giornalista con il corpo da bambino, la stravaganza surreale e i personaggi di contorno, come gli imbelli investigatori Dupont e Dupond, il capitano ubriacone Haddock e il cane Milu, rendono le sue storie meno rassicuranti di quanto si pensi.

Spielberg usa Tintin come aveva usato Indiana Jones: per dare corpo al suo infinito, e invidiabile, bisogno di avventura. Qualcuno arrivò a sostenere persino che per il personaggio di Harrison Ford l’autore di E.T. si fosse ispirato proprio agli album di fumetti di Hergé. Ma non è la storia della ricerca di un tesoro da parte di un invincibile investigatore che rende questo film, per me, un turning point nella storia del linguaggio cinematografico. È che Spielberg ha inventato una terza dimensione del cinema. Non film tradizionale, attori e scenari reali; non animazione, creature immaginarie rese reali da un disegno. In molte occasioni i due generi si sono inseguiti come fu in Chi ha incastrato Roger Rabbit di Zemeckis o in Avatar di James Cameron. La Pixar con WALL-E o Toy Story aveva portato il cartone animato al confine con la realtà e, nell’altra dimensione, Jurassic Park e Inception avevano teso il rapporto tra realtà e fantasia oltre le linee divisorie tradizionali. Spielberg rende ora quel confine invisibile: lo spettatore non sa se sta vedendo una invenzione della tecnologia o un prodotto della natura. Non sa se gli attori siano persone o disegni, se gli scenari siano o mattoni o prodotti di algoritmi. Si viene così proiettati in una dimensione incerta, un limbo estetico, in cui nulla è certo ma al tempo stesso nulla è impossibile. Come se la realtà fosse dilatabile restando se stessa.

La terza dimensione del cinema è cominciata con la “storiella” del piccolo giornalista che cerca un tesoro. Gli sviluppi sono infiniti. Spielberg in una intervista ha disvelato, attraverso una constatazione, quello che potrebbe diventare un progetto: «Visti i progressi della motion capture ho capito che era possibile fare il film senza dover tornare indietro di 40 anni e scritturare Walter Matthau nei panni di Haddock». Così un domani potremmo vedere una storia interpretata, nello stesso film, da Spencer Tracy, Sean Penn, James Dean, Jack Nicholson, Marilyn Monroe e Meryl Streep. Oppure scoprire nuovi attori tanto bravi quanto inesistenti nella realtà. Tutta la storia dell’arte è storia di uso di nuove tecnologie come bouquet di possibilità. Spielberg, con Tintin, ha aggiunto un fiore, nuovo.