IL PASSATO È UNA TERRA STRANIERA

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LA RUBRICA DI WALTER VELTRONI

«Abbiamo sbagliato, ma avevamo ragione»: questa frase pronunciata da Susan Sarandon è la chiave e il senso dell’ultimo film di Robert Redford, La regola del silenzio. Una premessa va fatta. Non bisogna chiedere a Redford di essere ciò che non è: un regista visionario, capace di fughe dalla realtà e di immersione nella dimensione del sogno. I suoi riferimenti non sono Fellini o Tim Burton ma l’autore del leggendario Tutti gli uomini del presidente, Alan J. Pakula, o forse, in Italia, il cinema di Elio Petri.

Realismo, con una costante presenza della dimensione sociale, storica, politica. E, sempre, l’idea che esista un plot irresistibile, la ricerca della verità. In orizzontale, frugando dietro i sipari chiusi e i poteri imperscrutabili, e in verticale, nel tempo e nella storia. Come accade in questo film, al centro del quale è la storia di un gruppo di uomini e donne la cui vita è improvvisamente sconvolta dall’arrivo di un ospite inatteso e rimosso, il passato. Trent’anni prima hanno compiuto una rapina finita con la morte di una guardia giurata, un padre di famiglia. Era il tempo in cui gruppi di giovani americani coltivavano l’idea che atti di terrorismo fossero l’unico modo di opporsi al potere. Nacquero molte di queste formazioni, come quella di Patricia Hearst o quella di cui faceva parte lo sfortunato protagonista di Zabriskie Point, Mark Frechette, che fu arrestato per una rapina a mano armata e poi morì in carcere. Gli appartenenti agli Weather Underground compirono tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta molti attentati, quasi sempre con intenzioni dimostrative.

La teoria espressa nella frase che Susan Sarandon usa in carcere racchiude l’idea disperata che l’unico modo per reagire a scelte efferate che il potere americano compiva – la guerra del Vietnam, la strage di My Lai, l’uccisone di leader dell’opposizione nera – fossero altri atti in fondo uguali e contrari, perché fatti della stessa argilla: la violenza. È una terribile illusione, che nelle società occidentali ha sempre rafforzato quel potere e semplicemente distrutto vite. Comprese quelle dei protagonisti attivi, finiti in carcere o costretti, come nel film, a fuggire dal loro passato, a cambiare identità, a sperare che nulla, mai, riaccenda i fari su quel tempo. L’altro protagonista del film è un giovanissimo giornalista di un quotidiano di provincia, che è ossessionato dalla ricerca della verità e la sente come un dovere etico. Il personaggio di Redford, che di quel movimento di protesta era stato uno dei leader, gli dice che, ai suoi tempi, un ragazzo come lui sarebbe stato nel movimento e non in un giornale.

Ma la storia è feroce e liberarsi del passato un’impresa difficile. «Sono cambiato io», dice Redford a Julie Christie che invece continua, col traffico clandestino di erba, a pensare di far vivere lo spirito illegale e liberatorio che aveva portato, trent’anni prima, gli Weather Underground a liberare dal carcere Timothy Leary, uno dei profeti della cultura underground. Il film è severo, asciutto, scritto bene. Redford e i suoi attori hanno il merito di non nascondere l’età. Nulla di indimenticabile, sia chiaro. Ma un film sulla memoria. Da ricordare.