INTERVISTA A PIF: «ECCO PERCHÉ, AL CINEMA E IN TV, MI SENTO UN UOMO LIBERO »

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Nei suoi film Pierfrancesco Diliberto, più noto come Pif, interpreta sempre uomini naïf che incontrano incidentalmente la Storia ma si accorgono in ritardo di quello che accade intorno a loro. Era successo nella sua opera prima La mafia uccide solo d’estate e succede anche nel suo secondo film In guerra per amore, dove interpreta di nuovo un personaggio di nome Arturo Giammarresi, stavolta un siciliano emigrato negli Stati Uniti che nel 1943 partecipa allo sbarco in Sicilia come soldato volontario solo per tornare in patria a chiedere la mano della fidanzata.

La Storia, della quale si accorgerà solo alla fine, è che il governo americano, dopo aver chiesto l’aiuto del boss Lucky Luciano per trovare strada libera allo sbarco in Sicilia, installò sistematicamente centinaia di mafiosi in posizioni di potere per usare la mafia come sentinella contro il comunismo. Avvelenando indelebilmente il tessuto istituzionale dell’isola e dell’Italia.

Tutto vero: il film nasce dal rapporto-denuncia sulla connessione tra Governo Alleato e mafia redatto nel 1943 dal capitano americano W.E. Scotten. «Non avessi trovato questo documento, avrei fatto un altro film», racconta Pif. «Perché questo rapporto dice una cosa fondamentale: che del problema della mafia si era coscienti anche allora. Gli americani però non hanno seguito i loro stessi consigli e in Afghanistan, negli anni ‘80, hanno fatto la stessa cosa fatta nel ’43 in Sicilia: si sono appoggiati ai nemici del loro nemico. Ma se si chiede aiuto al male per fare del bene, la situazione sfugge. La mafia è stata utile agli americani e all’Occidente per contenere il comunismo fino alla caduta del Muro di Berlino». Il personaggio di Arturo Giammarresi, che per collocazione storica potrebbe essere il nonno del primo Arturo, sembra ormai quasi un alter ego: «Era più un gioco, ma forse mi ispiro a me stesso, che prima di arrivare a capire una cosa ci metto un po’», dice il regista. Vederlo tanto ingenuo sullo schermo pare curioso se si pensa che da dieci anni, nella trasmissione tv Il testimone, Pif racconta invece la realtà con occhio ben attento e a modo suo, cioè viaggiando per il mondo da solo con una telecamera.

Il testimone ha appena concluso una stagione e si prepara a tornare in gennaio, passando da un’emittente all’altra senza cambiare format. A 44 anni, per Pif, un bel risultato di libertà. «Ormai, se un direttore di rete mi chiama, prende il pacchetto chiuso: la vivo come una conquista. La gente ha capito il mio modo di comunicare, lo apprezza e mi lascia totale libertà. Poi certo, la libertà completa non esiste, ogni editore ha i suoi interessi. Ma finora ho detto tutto quello che dovevo». L’ha fatto anche al cinema, restando fedele alla regola numero uno di Ettore Scola: bisogna far ridere il pubblico, poi ci si infila dentro cose importanti. E Pif ci riesce grazie a un bel cast, con Andrea Di Stefano, Miriam Leone, l’eccezionale duo Sergio Vespertino e Maurizio Bologna. Il film non a caso è dedicato al Maestro, col quale Pif ha girato due anni fa il documentario Ridendo e scherzando: «Scola mi ha notato proprio perché nel mio primo film racconto una cosa tragica come la mafia col sorriso: un modo tipico della commedia all’italiana di una volta. Ma non voglio analizzarmi troppo: ho paura di perdere la spontaneità. Già la popolarità ti mette a dura prova, perché pensi al giudizio degli altri». Stavolta però è stata una sfida anche sul set: «Dal punto di vista dell’esperienza, mi sembra che questo secondo film sia il primo: la lavorazione era più complessa, c’erano scene con molte comparse e io ero meno incosciente».

Parlare di nuovo di mafia è stata una necessità, e senza sconti verso la sua terra: «È arrivato il momento di fare un esame di coscienza: c’è una grossissima parte di responsabilità dei siciliani. Con La mafia uccide solo d’estate avevo puntato il dito su quella fascia della società palermitana, il ceto medio, che aveva gli strumenti per comprendere ma non ha voluto capire. La mafia verrà sconfitta solo quando i siciliani desidereranno davvero sconfiggerla. Lo dico anche nel film, nel discorso finale del boss nominato sindaco dagli americani, ispirato a quello che il pentito Pietro Aglieri ha detto una volta al giudice Alfonso Sabella: “Vede dottore, quando voi andate nelle scuole e parlate ai nostri ragazzi, quelli vi ascoltano. Ma quando poi escono e cercano un lavoro, a chi trovano? A voi o a noi?” Fino a quando la mafia riuscirà a colmare il gap organizzativo dello Stato, la gente le si rivolgerà sempre».