Gloria Mundi, Robert Guédiguian porta in concorso un dramma corale sullo sfondo della crisi economica

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Robert Guédiguian e Ariane Ascaride: la coppia di ferro del cinema francese. Lui regista, lei protagonista di venti dei ventuno film del marito (l’unica eccezione è stata Le passeggiate al Campo di Marte del 2005), sono un team artistico e sentimentale fin dai tempi dell’Università. Va anche detto che il regista tende a scritturare sempre, o quasi, lo stesso gruppo di attori (non è solo la moglie a ricorrere nei suoi cast) avendo creato l’equivalente cinematografico di una affiatata compagnia teatrale, anche perché dal teatro proviene la maggior parte degli interpreti.

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Una scelta quest’ultima che il regista, anche sceneggiatore dei suoi film (in Gloria Mundi lo affianca nella scrittura Serge Valletti), spiega così: «Gli attori teatrali sono persone che hanno un profondo amore e rispetto per il testo. Quel che mi piace nel lavorare con loro è riuscire a fare in modo che il copione si trasformi in qualcosa di autentico e naturale, pur conservando la sua risonanza intellettuale. L’obiettivo è ottenere una lettura a più livelli». Dopo La casa sul mare del 2017, dove Guédiguian metteva in scena il ritorno di due fratelli e una sorella nella casa natale per assistere il padre colpito da un ictus, anche in Gloria Mundi il cardine della narrazione sono i legami famigliari.

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Qui Daniel (Gérard Meylan), appena uscito da una lunga prigionia a seguito di una condanna, torna a Marsiglia. La sua ex moglie (Ariane Ascaride) lo ha avvertito che è diventato nonno, perché sua figlia, Mathilda (Anaïs Demoustier), ha dato alla luce Gloria. Ma Daniel scopre ben presto che la sua famiglia è oppressa da forti problemi economici: Mathilda è un’assistente alle vendite in prova e suo marito Nicolas un autista privato che una notte è assalito da un tassista, che lo considera un concorrente sleale. A questo punto Daniel fa di tutto per aiutare i suoi cari. La scelta stilistica del regista nel raccontare simili storie è di un rigore assoluto perché, dice lui, «la semplicità è sempre una cosa cui tendere. È una mia preoccupazione costante, che non può essere teorizzata. Lo scopo è cercare di fare il gesto più semplice possibile, come fosse un disegno». «Penso a registi come John Ford, che ha fatto più di cinquanta film apparentemente “semplici” – conclude Guédiguian – o anche a Ozu: sono autori molto diversi, uno raccontava il West, l’altro scene di vita quotidiana a Tokyo, eppure hanno in comune l’aver saputo quasi cancellarsi nelle storie che narravano. Io continuo ad amare il cinema che non si compiace e che “nasconde” la messa in scena».

Oscar Cosulich