Guest of Honour, il thriller dell’anima di Atom Egoyan

0
guest of honour

Jim è un ispettore alimentare dagli atteggiamenti così fermi da sfiorare il sadismo, specie quando sembra accanirsi su osti e ristoratori di cucina etnica. Invece, in Guest of Honour di Atom Egoyan, conosceremo quali abissi di dolore si celano dietro la cortese e apparentemente distaccata cortina del funzionario pubblico. Di flashback in flashback, avanti e indietro a complicare la trama di una vicenda sempre più dolorosa, scopriremo che la moglie è morta, la figlia è in carcere rea confessa di un crimine che peraltro non ha effettivamente commesso, l’abuso su di un 17enne suo allievo e questo per espiare altre colpe precedenti e più gravi (“volevo andare in prigione per qualcosa che ho fatto”). Quali? Il padre indagherà usando anche i metodi più scorretti.

«Era fissato con la contaminazione!» Ricorda la figlia, mentre cerca di capire perché il padre ha voluto che il proprio funerale si celebrasse proprio lì, in quella chiesa particolare. Ma ogni cosa ha la sua spiegazione e troverà la sua luce, in questo thriller dell’anima, imperniato sulla responsabilità personale di fronte al male che si fa, anche involontariamente. È una trama contorta e complicata come spesso ama costruire il regista armeno canadese (ricordate i lontani straordinari Black Comedy o Il dolce domani?), non solo per motivi di suspence narrativa, ma anche perché effettivamente i segreti di un’anima sono insondabili. Quando poi l’anima è quella di un uomo solitario, quasi scostante nella sua cortesia british, ma che noi vediamo anche commuoversi e prendersi cura di un coniglio (Benjamin) con dedizione assoluta, capiamo che solo un grande dolore può averlo agghiacciato a tal punto.

David Thewlis regala una interpretazione assolutamente straordinaria: le spalle leggermente incassate da vittima, pochi spostamenti di sguardo e l’arricciar della bocca, ci rivelano tutto il suo devastante e incolmabile travaglio intimo. Di converso, l’altro lato della storia, ovvero il crimine della figlia Veronica (Laysla De Oliveira), si racconta per svelamenti progressivi. Alla fine, quando si sono uniti tutti i puntini, resta solo la dolenza per l’evitabilità di una tragedia multipla che coincidenze e malintesi hanno reso al contrario ineluttabile. È cinema volutamente intellettuale, arzigogolato e dalle cadenze piane e poco accattivanti, ma che si addentra là dove il cinema può davvero incidere e accomunare collettivamente tutti in uno spettacolo cerimonia di pathos e catarsi. Non diremo travolgente, ma nobile e intenso, questo sì.