La rivoluzione in Mostra a Venezia: intervista al direttore Alberto Barbera

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Il cinema della realtà e delle donne, i film italiani capaci di rischiare: Alberto Barbera racconta Venezia76

«A conti fatti, dopo otto anni di questa esperienza posso dire con orgoglio che Venezia è il festival che più si è rinnovato e ha avuto coraggio nel guardare avanti, nell’abbandonare categorie immutabili. Lo ha fatto senza pregiudizi di sorta: è la cosa di cui vado più fiero». È questo lo spirito con cui il direttore Alberto Barbera inaugurerà stasera il red carpet della 76. Mostra del Cinema, di nuovo pronta a trasformarsi per raccontare sempre più discipline, più ossessioni, più sguardi della settima arte.

Molti film in programma hanno temi storici: una conseguenza della selezione o una tendenza generale?
È una realtà che risponde all’esigenza del cinema d’autore contemporaneo di ristabilire una verità storica con dovizia di dettagli, perché molti eventi del passato sono frutto di sedimentazioni non sempre corrette. I registi affrontano i fatti con un atteggiamento da storici, si basano su documenti reali, registrazioni di processi, verbali, interrogatori. La parte lasciata alla ricostruzione di fantasia, nella maggior parte dei casi, è minima. Non si tratta solo di uno sguardo rivolto all’indietro: molti di questi eventi hanno echi riflessi sull’oggi, è un modo per gli autori di parlare del presente.

L’altro tema dominante sono i film che affrontano la condizione femminile nelle diverse società.
Non stupisce: è il frutto di una sensibilità nuova e recente. Anche quando si tratta di film non diretti da donne, l’approccio è diverso rispetto al passato. Non sono semplificazioni o propaganda su tematiche di moda ma approfondimenti sulla complessità delle situazioni, condotti con spirito critico e costruttivo.

Vince il cinema del reale?
C’è di certo un ritorno al cinema della realtà. All’inizio degli anni 2000 c’è stata una fuga in universi di fantasia e mondi paralleli generati dal computer e dall’immaginazione degli sceneggiatori, oggi ci sono fatti veri, cronaca, vite vissute. È uno dei filoni del grande cinema del passato: colpisce che la maggior parte dei film di quest’anno a Venezia appartengano a questa categoria.

Dai grandi classici alla realtà virtuale, l’offerta della Mostra si moltiplicano: qual è il disegno culturale alla base?
Il cinema sta subendo la più profonda e radicale rivoluzione che lo abbia interessato dalle origini a oggi. Sta rimettendo in discussione la sua stessa natura: questo ci obbliga a rivedere le categorie critiche con cui l’abbiamo considerato finora. Il festival è cambiato per tentare di rendere conto di queste trasformazioni, dell’abbattimento delle barriere tra cinema documentario e di finzione, tra cinema di genere e d’autore. C’è un rimescolamento complessivo per dar vita a nuove forme narrative, e la Mostra rappresenta anche queste polarizzazioni: da un lato gli autori che sperimentano, dall’altra il cinema che una volta si sarebbe detto in modo riduttivo “mainstream”.

Cosa unisce il cinema italiano in concorso?
Tra i film che abbiamo visto, i tre in concorso sono quelli che hanno rischiato di più e sono usciti dai sentieri conosciuti del cinema italiano. Sono all’altezza delle loro ambizioni. Il problema del cinema italiano di oggi è che purtroppo rischia poco, ma quando si investe in termini economici, di contenuti, di progettualità e di tempi, i risultati sono eccezionali. Vale anche per le due serie che anticiperemo, The New Pope e ZeroZeroZero. Quando invece si producono film tanto per sopravvivere o sfruttare le tante risorse pubbliche a disposizione, le cose non funzionano più. Nel cinema italiano abbiamo visto troppi film di qualità modesta che non servono a nessuno e non ricostruiscono il rapporto di fiducia con gli spettatori. Puntare alla qualità è l’unica cosa che paga.