È un legame antico quanto proficuo, quello tra l’acclamato regista giapponese Hirokazu Koreeda (Palma d’oro 2018 per Un affare di famiglia) e la città di Venezia, dove iniziò a farsi conoscere sulla scena internazionale portandovi il suo primo lungometraggio, Maborosi (1995), in concorso alla Mostra della Biennale. E dove, il 23 marzo di quest’anno, è intervenuto ospite del Ca’ Foscari Short Film Festival, per presentare il suo libro Pensieri dal set, autobiografia e insieme denso testo teorico sulla settima arte. A condurre l’incontro c’era Francesco Vitucci, docente all’Università di Bologna e traduttore in italiano del volume, edito da Cue Press.
«Venezia per me ha rappresentato un’importante occasione», afferma Koreeda ricordando i tempi del suo esordio alla Biennale quasi tre decenni fa, alla cui origine, confessa, c’era stato il suggerimento di una collega di Taiwan. Da lì in poi, il cineasta ha avuto un rapporto decisamente positivo con le grandi kermesse filmiche, malgrado, soprattutto in un primo momento, la critica estera proponesse talvolta interpretazioni dei suoi film piuttosto distanti dalle intenzioni dell’autore.
«Più che fraintendimenti», spiega al riguardo, «spesso scopro aspetti che neanche io credevo di trovare nelle mie produzioni. A Venezia, per esempio, molti anni fa i critici tendevano ad accostarmi ad aspetti tradizionali della cultura del mio Paese: lo zen, l’haiku, qualcuno addirittura vedeva nei miei film riferimenti al bombardamento di Hiroshima, e spesso la questione della morte. In realtà non ho mai pensato di trattare volutamente questi temi. Questo però mi ha dato la possibilità di pensarmi in quanto regista giapponese».
Tra gli argomenti che, senza timore di equivoco, interessano l’opera di Koreeda c’è invece quello delle relazioni familiari, «da cui si dipartono una serie di storie che mi piace raccontare nei miei film». Compreso l’ultimo, Le buone stelle – Broker, uscito da noi lo scorso autunno e vincitore a Cannes 2022 del Premio all’interpretazione del protagonista maschile Song Kang-ho.
Il regista ha dunque condiviso alcune considerazioni sulla famiglia e su come quest’ultima stia cambiando nella sua terra d’origine: «Non sono un sociologo né un esperto in materia, ma se si dà un’occhiata ai numeri della popolazione giapponese, possiamo dire che un quarto delle persone sono single, la popolazione invecchia, c’è un drastico calo delle nascite. L’immagine della famiglia che potevo avere da giovane, simile a quella in cui sono cresciuto, ora sembra frammentata. Ce ne sono di nuovi tipi, ma la società giapponese sembra ancora restia ad accettarli. Basti pensare al fatto che da noi i matrimoni tra persone dello stesso sesso non sono ancora legali. Da questo punto di vista mi sentirei di dire che siamo rimasti un passo indietro».
Tra gli aspetti che il filmmaker non ha mancato di criticare della realtà nipponica c’è poi l’operato dei media: «La politica esercita ancora oggi una pressione molto forte su di loro, soprattutto quelli televisivi», afferma, «si può parlare quasi di controllo dei giornalisti, e loro quasi non sono consapevoli di questa pressione. Non si può dire ancora che ci sia vera libertà di espressione nella tv giapponese». Rispetto comunque ai contenuti di critica sociale riscontrabili nei suoi film, il cineasta precisa che il suo intento non è proporre «un messaggio precodificato, impacchettato», ma apprezzi piuttosto suscitare una riflessione che «emerge man mano». E «se poi dopo aver visto i miei film lo spettatore riesce a sviluppare una coscienza critica, questo mi rende veramente soddisfatto». Koreeda definisce questo effetto sul pubblico «una scossa», tale da innescare «una sorta di reazione a catena».
Ed è il caso di Broker, che affronta il nodo dei bambini abbandonati e di chi li vende a famiglie abbienti. E dove però proprio due di questi “intermediari”, assieme a una madre in fuga dalla giustizia e al suo bambino, finiranno col formare una singolare unione. «L’occasione per riflettere su questo tema», racconta Koreeda, «mi è venuta quando è nata mia figlia. Lì mi sono posto una serie di domande, su come si crescono i figli, come mi sarei dovuto comportare. Mi sono domandato se ci fosse qualcosa che andava al di là del vincolo di sangue, e Broker riflette su questo tipo di rapporti umani».
Il film ha costituito anche una nova trasferta per il regista, stavolta in Corea del Sud, dopo quella francese di Le verità (2019) con Catherine Deneuve. A proposito di queste due esperienze, a confronto con quelle in patria, Koreeda ammette di aver sperimentato «delle differenze notevoli» tra i sistemi lavorativi. «Prima di tutto dal punto di vista delle ore di lavoro: in Giappone ci si costringe spesso a dei turni molto lunghi senza fermarsi, in Francia e Corea c’è una maggiore attenzione in tal senso. Dal mio punto di vista mi sono trovato molto meglio in questi ambienti, quello francese in particolare è stato meraviglioso. Ciò che posso fare io è riportare queste esperienze in Giappone e cercare di migliorare il sistema, per quanto posso».
Non sono mancati, comunque, dati i diversi contesti linguistici e culturali menzionati, «dei simpatici fraintendimenti». Comunque, conclude, «Quello che ho imparato andando all’estero è il fatto di potermi interfacciare con artisti di primissimo livello, andando oltre lo stesso limite della lingua. Ho compiuto da poco 60 anni, e l’esperienza in Francia mi ha fatto capire che per me c’è ancora spazio per crescere, è stato uno stimolo grandissimo per continuare ad andare avanti».