L’occhio della gallina e la «rivoluzione dolce» di Antonietta De Lillo

Abbiamo intervistato la regista, produttrice e protagonista del doc presentato alle Notti Veneziane: «Faccio vedere cosa non deve più succedere»

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Per Antonietta De Lillo la Mostra del Cinema di Venezia era «il posto giusto» dove presentare il suo doc L’occhio della gallina, in anteprima alle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori: anche perché proprio al Lido era stato proiettato, nel 2004, il più ambizioso e travagliato lungometraggio di finzione della cineasta, Il resto di niente: che, spiega a Ciak, «mi ha lasciato una grande eredità, cioè l’uso dell’istinto come strumento artistico e creativo».

Istinto applicato anche a questo nuovo lavoro (prodotto con la sua Marechiarofilm, scritto con Laura Sabatino e la collaborazione di Alice Mariani), dove per la prima volta ritrae sé stessa. «Ho capito che se ero io la protagonista, non dovevo mai guardarmi. Quindi mi sono lasciata guardare dagli altri». Senza nascondere il passare del tempo: «Non per mancanza di vanità, ma perché so che a volte nel cinema la bellezza la conquista lo spirito. E ha funzionato: non provo fastidio a vedermi invecchiata, senza trucco».

Nel film scorre tutto il vissuto artistico e umano della regista, non ultima la ventennale odissea burocratico-giudiziaria cominciata proprio col contenzioso sulla distribuzione de Il resto di niente e proseguita con quello sul finanziamento al successivo progetto Morta di soap, ancora in attesa di vedere la luce: delle 9 sentenze sin qui emesse in merito, solo una ha dato ragione al Ministero della Cultura (poi annullata in secondo grado dal Consiglio di Stato), e la vicenda non si è ancora conclusa.

Viene in mente un po’ il Josef K. del Processo di Kafka (autore che tra l’altro ha ispirato un altro film di De Lillo, Il signor Rotpeter, 2017). Ma, per la cineasta, siamo un po’ tutti Josef K.: «La mia è una storia individuale che riguarda un’intera società. Sento sempre di essere all’avanguardia di una situazione disastrosa, e cerco di mettere in guardia il mondo che ho intorno».

Per esempio, De Lillo ritiene che le modifiche alla Legge Franceschini sul Cinema, di cui comunque era molto critica, porteranno ulteriori difficoltà a «tutti i piccoli e medi produttori e autori che non si omologano a una situazione dove si parla sempre di più del cinema come industria. Ma il cinema non è un’industria, perché l’industria riproduce oggetti sempre uguali, il cinema, anche quando è “industriale”, non produce mai cose uguali tra loro».

In tutto questo, aggiunge, «ci si racconta che va tutto benissimo, e non ci si rende conto che stiamo sbattendo contro un muro a 120 km l’ora. E qui non parla la regista, parla la spettatrice: nel cinema italiano di oggi ci sono alcuni film bellissimi, ma tutto il resto? “È noia”. Io non sono “morettiana”, ma condivido ciò che ha detto Nanni Moretti presentando il film Vittoria, quando gli hanno chiesto come mai i film belli vengono mal distribuiti, e lui ha risposto: “Come mai i film brutti vengono distribuiti?».

Ne L’occhio della gallina, tra l’altro, ritroviamo anche la memorabile protagonista de Il resto di niente, Maria de Medeiros, che racconta a sua volta le difficoltà e l’ostracismo subiti nel suo Paese d’origine, il Portogallo, al momento del passaggio alla regia. Insinuando il sospetto di un certo pregiudizio patriarcale ancora diffuso verso le autrici e produttrici donne. Per De Lillo «quando si tratta del mio genere c’è un’idea maschile, un po’ infantile, del “non dargliela vinta”». Lei peraltro, nel suo caso, non vorrebbe nemmeno “averla vinta”: «Quello che voglio è dialogare in maniera paritaria».

Nella conversazione tra De Lillo e De Medeiros emerge non a caso una complicità immutata nel tempo: «È stato un bell’incontro», commenta la cineasta partenopea, «ha partecipato al film senza chiedere che facciamo o non facciamo, ci siamo sedute e abbiamo parlato, senza una parola di preparazione, si è fidata. E non abbiamo mai parlato delle mie vicende, anche se lei stessa ha visto che non più fatto film. È bello quando ti ritrovi così, con due registe europee che in qualche modo parlano di rivoluzione e forse fanno anche una rivoluzione “dolce”».

Quella di De Lillo, in qualche modo, emerge dalla vitalità e inventiva del cinema che, per necessità e virtù, si è trovata a fare in questi ultimi due decenni, e che si riflette nell’organizzazione, libera e insieme rigorosa, del flusso di materiali, immagini, piani della rappresentazione e dell’esistenza di cui è composto il film: «Capisco che accanto alla sensibilità devo mettere uno scheletro. E ogni volta, per ogni film, è diverso. Cerco il linguaggio e lo sperimento. Qui c’è la “chiusura” del personaggio in un grande sgabuzzino, quasi come se in una favola l’avessero chiusa dentro buttando le chiavi». Ma in questa struttura si estrinseca nondimeno «il gioco del cinema», dove il «backstage è più importante della macchina che inquadra».

Col contributo non indifferente delle figlie di Antonietta De Lillo, Carolina De Lillo Magliulo ed Elisabetta Giannini (quest’ultima anche montatrice del film con la supervisione di Giogiò Franchini): «Di solito sono i figli che ringraziano la mamma per averli cresciuti, io vorrei ringraziare le mie figlie per avermi sostenuto così bene». Dalla dimensione familiare viene anche un altro dei tratti distintivi de L’occhio della gallina e dell’esperienza di De Lillo, l’ironia: che è «il modo migliore per giocare, per dirsi delle verità».

Ma che futuro auspica la regista, dopo l’anteprima veneziana, per questo film che qualcuno potrebbe definire “scomodo”? «Che diventi “comodo”», risponde, «per tutti noi, per far vedere cosa non deve più succedere, per invitare le mie controparti al dialogo, a trovare una via d’uscita. Mi auguro tutto il bene per il mio film, come al solito. Ma ovviamente la sua vita d’ora in poi è in mano agli altri».