È stato Pupi Avati, col suo nuovo lungometraggio L’orto americano (nelle sale a febbraio 2025 per 01 Distribution), a chiudere quest’anno la Mostra del Cinema di Venezia, di cui il regista romagnolo è frequentatore assiduo, ben 10 volte in selezione ufficiale: a proposito del primo lavoro portato al Lido, il regista ricorda «la meravigliosa accoglienza di Una gita scolastica, e Ugo Tognazzi che uscì dalla proiezione urlando “Leone d’oro a Carlo Delle Piane!”. Poi invece lo vinse successivamente con Regalo di Natale».
Stavolta, Avati prosegue sulla via del ritorno a quel gotico in cui ha offerto alcune delle sue prove più apprezzate, come La casa dalle finestre che ridono (1976). Ma specifica di non essersi mai «allontanato più di tanto da questo genere, che secondo me dovremmo praticare di più in Italia».
E lui ne L’orto americano (tratto dal suo romanzo omonimo) ci ha creduto moltissimo: «È la prima volta in cui ho la sensazione di fare “il cinema”»: da un lato per la stessa impostazione di genere, cioè dell’«umiltà di chi racconta una storia popolare», e dall’altro per la scelta del bianco e nero, a partire dalla quale Avati omaggia tanti film del passato, soprattutto quelli americani degli anni ’40. È infatti ambientato in quel decennio il noir-horror del regista, più nello specifico all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Seguendo l’ossessione di un giovane scrittore senza successo (Filippo Scotti) per un’ausiliaria americana incontrata casualmente e di sfuggita. Il dubbio che possa essere stata orrendamente uccisa da un assassino seriale spingerà il protagonista a un’indagine tra Midwest e Romagna dai risvolti sempre più inquietanti.
«Sul serial killer», afferma Avati, «credo di non aver inventato nulla rispetto a storie che sappiamo, a partire dal mostro di Firenze. Sembra la parte più atroce ma è la più realistica del film». Ciò che più gli interessava era la definizione psicologica del malinconico personaggio di Filippo Scotti, «che non ha neppure un nome nel film, è la persona più sola che ci sia». E presenta qualche analogia autobiografica col regista: «Io sono stato un essere umano molto timido, con un grande complesso di inferiorità, soprattutto per il mio aspetto estetico», confessa Avati, che come il protagonista de L’orto americano ha l’abitudine di “evocare” per nome le persone care defunte: «È come il pinguino dell’aria condizionata: tu dici i tuoi morti, ed entra una sorta di quiete, ti riappacifichi col mondo e con la vita».
Presenti all’incontro anche i produttori del film Antonio Avati (fratello del regista) di DueA Film, Gianluca Curti (Minerva Pictures) e Paolo Del Brocco (Rai Cinema), oltre a molti degli interpreti, che hanno commentato l’esperienza sul set diretti dal cineasta. «Mi sono sentito accolto, “giudicato” ma non in senso negativo. Pupi ti dice le cose in maniera diretta e ti dà la possibilità di fare uno scatto», ha detto Scotti (già Premio Mastroianni 2021 per È stata la mano di Dio).
Per Roberto De Francesco, Pupi Avati «è un grande accordatore di attori. Ha un orecchio talmente fine che riesce a farti capire come va suonata la partitura che devi eseguire». Anche Armando De Ceccon ha elogiato la capacità del regista di «riprodurre una partecipazione attiva, straordinaria di tutti», mentre Romano Reggiani ha sottolineato in particolare la capacità di scegliere volti e talenti caratteristici per i piccoli ruoli (i «“casi umani”», li chiama ironicamente Avati), formando una «carovana un po’ da commedia dell’arte».
E nel film è particolarmente significativo l’apporto del cast femminile, da Morena Gentile, alla sua prima collaborazione col regista («Ringrazio il maestro per l’opportunità») a Chiara Caselli, diretta da Avati per la terza volta, dopo Il signor Diavolo e Lei mi parla ancora: «Già da primo ciak con lui, era un monologo di cinque minuti, l’asticella era molto alta». Guest-star d’eccezione Rita Tushingham, pluripremiata (a Cannes, ai BAFTA e ai Golden Globe) per Sapore di miele (1961) e amata, tra i tanti ruoli, anche ne Il dottor Zivago (1965), dove era Tanja. Avati l’aveva già coinvolta ne Il nascondiglio (2007): con lui, dichiara l’ottantaduenne attrice, «è come sentirsi avvolti da una coperta calda che hai intorno. Ci ha lasciato fare quello che dovevamo fare, era tutto scritto sulla pagina, un’esperienza meravigliosa».