Li abbiamo visti amici in viaggio, all’inizio del percorso che oggi li vede produttori sempre più attivi e interpreti di Máquina: il pugile, del 9 ottobre su Disney+, e avremmo dovuto vederli anche come ospiti alla Festa del Cinema di Roma 2024. Dove ‘purtroppo’ è arrivato solo Gael García Berna, senza Diego Luna, a presentare la serie tv – prodotta insieme, come il film Estado de silencio di Santiago Maza, tra gli Special Screenings – e a tenere banco nell’incontro pubblico in programma al festival. Una vicenda che li vede nei panni di un famoso pugile ormai in declino e del suo amico e inseparabile manager, come i due – questa volta insieme – ci hanno raccontato in esclusiva.
I sei episodi di Máquina seguono la vita di Esteban Osuna (Bernal), pugile in declino a un passo dal ritiro, e del suo manager e migliore amico, Andy Lujan (Luna), impegnato a riportarlo sul ring un’ultima volta per conquistare il titolo in barba all’età e alle difficoltà di un allenamento – che ormai cozza con la sua nuova vita – ma soprattutto dell’emersione di un sottobosco malavitoso che rischia di opporsi alla realizzazione del sogno.
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“Non so se fossero le quattro, le cinque, o le sei del mattino, era sicuramente molto tardi, – ha raccontato Bernal della genesi del progetto, nato una notte del 2010 al Festival del Cinema di Berlino, mentre i due amici arrancavano nella neve dopo una serata di bagordi. – Mentre andavamo in cerca di un kebab abbiamo iniziato a gridare pateticamente nella neve: ‘Facciamo qualcosa insieme. Scriviamolo!‘. E per quanto allora sembrasse folle, oggi quel progetto è una realtà nella quale i due hanno coinvolto anche Eiza González, per il ruolo di Irasema, la giornalista ed ex moglie del pugile, Jorge Perugorría, Andrés Delgado, Karina Gidi, Dariam Coco e Lucía Méndez, oltre ovviamente al regista Gabriel Ripstein (600 miglia e Aquí en la Tierra, con lo stesso Bernal).
“Nasce da quanto ci piace la boxe e dalla frustrazione, perché io stavo preparando per un film sul pugilato che non è più stato fatto e mi stavo allenando, ma praticavo la boxe da circa 13 anni, e nel 2007 Diego aveva fatto un documentario su J.C. Chávez e quindi avevamo tantissime informazioni, avevamo già messo un piede in quel mondo e volevamo fare qualcosa sulla boxe, ma che parlasse anche di altro“, dice Bernal andando un po’ più indietro sulla genesi di questo Máquina. Un viaggio a ritroso che ci porta oltre, a quando i due amici (poi insieme in tanti progetti, da Y tu mamá también – Anche tua madre a Rudo y Cursi) si erano conosciuti.
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DIEGO LUNA: Essere riusciti a lavorare insieme per così tanto tempo, è stato particolare. A otto anni, quando eravamo bambini, abbiamo iniziato a fare teatro, poi è venuto Y tu mamá también, ed è stato molto importante. Abbiamo lavorato come attori nel cinema tre o quattro volte, e nel tempo che passava in mezzo sono successe cose, ma poi siamo tornati insieme. E continuiamo. Oggi più che specchiarmi in Gael, lo riconosco e anche se lavoriamo con molto rigore e impegno, e vogliamo andare il più lontano possibile, capita che ci si lasci andare. Prima di Y tu mamá también tutto sembrava fondamentale, cruciale, tutto era ‘vita o morte’, “l’occasione”, ma non è più questo a guidare, anzi, è la consapevolezza che questo potrebbe essere solo un altro progetto. Oggi non lavoriamo questo o quello funzionino, ma è il lungo viaggio che conta, è quello che prendi, è come ti trasforma e ti permette di essere migliore in quello successivo. La collaborazione è importante, realizzare qualcosa in un gruppo, far parte di un ciclo, ma ci vuole tempo per capirlo. Quando lo capisci però ti godi molto di più il viaggio.
GAEL GARCIA BERNAL: In questo senso e pensando alla serie, è interessante ascoltare i pugili a questo punto della loro carriera, diventano molto onesti. Muhammad Ali e Mike Tyson hanno descritto molto bene come si sentivano in quel momento. Tyson dice che non aveva più la rabbia che aveva costituito la sua forza all’inizio, quando era tutto ciò che aveva. Il pugilato è molto crudele, in genere non ti dà una seconda possibilità, il corpo non recupera, ma nella vita va sempre meglio.
DIEGO LUNA: Come nella recitazione. La complessità arriva con il tempo.
Non sarà stato sul ring, come i nomi che citate, ma ogni tanto vi abbiamo visti scontrare. Solo in scena?
DIEGO LUNA: È successo più di una volta. Y tu mamá también – Anche tua madre a Rudo y Cursi sono le uniche due volte in cui ci siamo scontrati a quel livello, credo. Oggi produciamo progetti di altri, siamo amici, passiamo il tempo insieme, non credo ci arriveremmo mai. È successo solo nella finzione. E nella finzione ho visto una intensità da parte di Bernal che mi ha fatto un po’ paura, a livello di recitazione e nella performance resa nei combattimenti. Sono rimasto impressionato, perché ho visto un sacco di pugilato dal vivo, e posso dire che in alcuni momenti ha fatto quello che si deve fare. Ovviamente, se vedete un round completo, vedreste la differenza, ma c’erano momenti di perfezione, di realismo, quando combatteva contro pugili veri, perché gli attori di fronte a lui erano pugili veri. In qualche maniera aveva la tecnica che aveva deciso che questo personaggio avrebbe dovuto avere, è stato bello vedere la personalità che ha saputo dare a La Maquina.
GAEL GARCIA BERNAL: Anche Diego, a volte quando usciva dalla roulotte del trucco, con tutta la roba che si metteva in faccia, era come se fosse sempre nel personaggio. Da attore, è una gioia continuare a essere il personaggio, mantenere la concentrazione e il divertimento. Sapevamo che avremmo affrontato la serie come una sorta di semi-satira, con un tono farsesco non privo di profondità, ma ci piaceva. Penso sia per il nostro background teatrale e per il fatto che ci piacciono film che sono un po’ surreali, un po’ strani, non so, ci piacciono gli artifici nei film. Forse per questo abbiamo un festival di documentari, ammiriamo i documentari perché SONO documentari e quello che ci piace fare è qualcosa che invece è completamente finzione…
Anche il pugilato è un’opera in cui ogni pugile interpreta un ruolo?
DIEGO LUNA: Chiede quello che chiede il teatro, ma prende più di quello che prende il teatro. In un incontro ti aspetti del teatro, una storia da raccontare sul ring, ricca, che ti coinvolga e ti renda quasi partecipe, che è quello che la Boxe richiede, o almeno quello che il manager dice che la Boxe richieda ai pugili, per cui quando non sei disposto a inventare una storia, in qualche modo stai perdendo un’occasione.
GAEL GARCIA BERNAL: Sicuramente è molto simile al teatro, ma ci sono molti tipi di teatro. Per esempio, il wrestling ha la caratteristica di essere un atto che racconta il Bene contro il Male, ma nel quale Bene e Male possono scambiarsi le parti. Questo è ciò che il pubblico va a vedere: il Bene che sconfigge il Male, perché il mondo è orribile e tutti vogliamo vedere il Bene trionfare. Nel pugilato, invece, anche se ci sono un cattivo e un eroe, vediamo l’umanità dei pugili ed empatizziamo con quello che sta perdendo. Proviamo qualcosa. Sentiamo il sacrificio. Il pugilato ti lascia la sensazione che tutto sia sempre appeso a un filo, sul precipizio; qualcuno vince, ma allo stesso tempo è doloroso vedere perdere l’altro se entrambi hanno dato vita a un combattimento incredibile, tutti quelli che l’hanno visto vincono. E quello che volevamo fare nella serie era proprio sovvertire l’archetipo dei film sulla boxe. Non volevamo raccontare una ascesa al successo, non volevamo raccontare il pugile sconosciuto che diventa famoso, volevamo costruire una storia che affrontasse temi rilevanti per la nostra epoca, come la fine della celebrità e la possibilità di smettere, e volevamo giocare con questo.
Un racconto del genere poteva essere ambientato in un mondo diverso da quello della boxe?
DIEGO LUNA: Non so, perché tra le cose che ci sono dietro questo progetto era importante il fatto di tornare in Messico. E volendo raccontare una storia di come il successo ti travolge e di quanto difficile possa diventare il momento di smettere, di dire addio, abbiamo dovuto trovare lo sport migliore. E le storie che ricordiamo sono quelle della boxe. Quando eravamo adolescenti, o bambini, c’era Julio Cesar Chavez, e molte arene di Las Vegas aprivano con un incontro di Julio César. Riusciva a fare il tutto esaurito in ogni stadio in cui combatteva e quando c’era lui tutto il Paese si fermava. Il Messico è un Paese con problemi di classe enormi, ma il pugilato riusciva a cancellare queste frontiere e a entusiasmare tutti per un evento in cui il messicano vinceva. Ce ne sono stati altri negli anni, oggi ce n’è uno che si chiama Canelo, ed è messicano. Era interessante iniziare una storia in cui i messicani vincono sempre, no? Credo che il pugilato sia diventato la scusa per andare oltre, per parlare di chi siamo, di dove siamo cresciuti e di cosa ci ha spinto a recitare insieme, perché per noi è stata la libertà che si trova in quel Paese a dare il via a tutto.