Gli orsi non esistono, la recensione del film di Jafar Panahi

La nostra recensione de Gli orsi non esistono (Khers nist), il nuovo film di Jafar Panahi, Premio Speciale della Giuria a Venezia 79 e dal 6 settembre in sala per Academy Two.

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Si è dovuto aspettare la penultima giornata di Venezia 79 perché quell’idea di “finestra sul mondo”, fatta dichiaratamente propria dalla Mostra, trovasse la sua più compiuta ed efficace concretizzazione nel concorso principale. Grazie a Gli orsi non esistono (Khers nist) di Jafar Panahi, forse il vero nome chiave dell’intero Festival, se è vero, come è vero, che gli assenti, spesso, pesano più dei presenti.

Specialmente quando l’assenza è dovuta, come per il regista iraniano, a un arresto (lo scorso luglio) e a sei anni di reclusione da scontare per aver detto, mostrato, agito oltre i limiti imposti da un governo autoritario. E però quello del cineasta iraniano, già Leone d’oro nel 2000 per Il cerchio e Orso d’oro per Taxi Teheran quindici anni (e una condanna a non poter più realizzare film né rilasciare interviste o abbandonare il Paese) dopo, è riuscito ad essere non solo il caso politico, ma anche quello cinematografico del Lido – con buona pace di una Hollywood schierata in forze tra glamour, divi e mega-produzioni.

Perché il nuovo lungometraggio di Panahi, Premio Speciale della Giuria alla Mostra veneziana e in sala dal 6 ottobre per Academy Two, non è solo un film sulla (sua e nostra) realtà, ma anche, e soprattutto, un film sul cinema, e sul rapporto sempre più problematico che l’una e l’altra cosa intrattengono nel mondo di oggi. Dove, al netto dei ponti telematici, i confini fisici, culturali e politici fra terre e persone sembrano ostacoli insormontabili. Ed ecco allora che il (vero) dramma del regista e dell’uomo scorre prima, durante e oltre la parabola de Gli orsi non esistono.

Dove è lo stesso Panahi, di nuovo protagonista dei suoi lungometraggi semiclandestini, a interpretare un regista impegnato a girare un documentario da remoto in un villaggio iraniano al confine con la Turchia. È già tutto nella prima sequenza del film (e del film nel film), dove una coppia di migranti irregolari tenta di raggiungere l’Europa, finché il movimento della videocamera e lo stop del cineasta non svelano l’artificio, lo schermo attraverso cui Panahi dirige la troupe situata oltre la frontiera che lui non può varcare.

Ancora una volta, nella produzione recente del filmmaker iraniano, ci muoviamo al confine mai così sfuggente tra finzione e suo contrario. Perché, ovunque si trovi questo confine, non cambia la responsabilità di chi per vocazione e professione racconta l’umanità attraverso le immagini. Così, mentre lavora al (finto) doc, il Panahi personaggio, quasi novello David Hemmings di Blow-Up, finisce al centro di uno scandalo nel paesino in cui è ospite, a causa di una foto che (forse) ha scattato ad una coppia di ragazzi, ostracizzata dai notabili locali (lei promessa sposa dalla famiglia ad un altro, lui espulso dall’università di Teheran per aver partecipato a una manifestazione).

L’oggetto temuto e ricercato è dunque un’immagine che non sappiamo nemmeno se esista davvero. A contare è il gesto, il cortocircuito innescato nella società e nella coscienza dagli strumenti audiovisivi, con i frammenti di spazio e tempo da essi immortalati e riprodotti. È quell’afferrare pezzi di reale (anche) nella rappresentazione, il peccato che mette in crisi i poteri vecchi e nuovi, grandi e piccoli, quando il mezzo non sia sotto il loro controllo. È il sottrarre attimi di Storia al fiume di una tradizione rinnovante gerarchie, soprusi, tabù, superstizioni (come quella sugli orsi che dà il titolo al film), l’atto che supera il confine costituito tra lecito ed illecito. Concepire, registrare, salvare sguardi è (ancora) il moto sovversivo per eccellenza.

Ce lo confermano, oggi, le immagini delle donne che nella stessa Repubblica islamica protestano a rischio (e a costo) della vita per i loro diritti negati. E, prima che la rivolta scoppiasse, ce lo ha ricordato Panahi. Con la forza di una sobrietà stilistica dietro e dentro la quale si agita una consapevolezza del mezzo filmico, e del suo statuto ambiguo, che fa impallidire l’overdose di virtuosismi postmoderni alla Blonde. Venezia si aspettava una lezione di libertà espressiva (pagata a caro prezzo). E ha avuto, in aggiunta, una lezione di grande cinema.

RASSEGNA PANORAMICA
VOTO:
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