Pino – La recensione del doc italiano premiato al Torino Film Festival

La nostra recensione di Pino, il doc di Walter Fasano (prodotto da Passo Uno) sull’artista Pino Pascali, premiato al TFF come Miglior Documentario nella sezione TFFdoc/Italiana

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È la dimensione del ritorno a informare Pino (su MyMovies fino alla mezzanotte del 29 novembre), il film di Walter Fasano vincitore al Torino Film Festival del premio come Miglior Documentario nella sezione TFFdoc/Italiana e incentrato sulla figura di Pino Pascali, artista d’avanguardia morto poco più che trentenne in un incidente di moto, l’11 settembre 1968. È un ritorno «alla propria terra, al sole, al mare», come viene detto nel documentario. Un ritorno che coinvolge prima di tutto l’opera stessa dell’artista, con la restituzione alla Puglia (cinquant’anni dopo la scomparsa del barese Pascali) dell’installazione 5 bachi da seta e un bozzolo, acquistata dalla Fondazione Pino Pascali per essere ospitata nel Museo di Polignano a Mare.

Da questo evento Fasano (già montatore per registi come Dario Argento, Ferzan Ozpetek e il coreano Park Chan-wok) prende le mosse per un’immersione, tra passato e presente, nella vita e nella creatività del «ragazzo terribile della scultura italiana» (come lo sentiamo definire nell’annuncio della morte). Dove la pluralità di materiali reinventati e trasformati dall’impetuosa creatività dell’artista ispira anche l’ordito stilistico e narrativo del film: persino le parole degli atti burocratici e il lavoro degli operai che, rispettivamente, certificano ed eseguono l’acquisto dell’installazione diventano materiale di (ri)evocazione poetica. Al centro della quale c’è una vita non facilmente distinguibile dall’opera, se è vero che persino quel fatale sottopassaggio a Roma può essere riletto e reinterpretato come estrema «galleria d’arte».

Fasano, dunque, si muove come un marinaio che riporta alle origini e alla memoria un patrimonio di visioni e trasfigurazioni mentre lo apre alla (ri)scoperta delle generazioni vecchie e nuove. Di chi c’era e di chi c’è ora, in un presente fatto di «passato da inventare e futuro da esplorare». A fare da bussola al marinaio (e ai passeggeri) sono soprattutto le fotografie, alcune dello stesso Pascali (e talvolta uniche testimonianze di opere distrutte da lui stesso), altre di Claudio Abate, Elisabetta Catalano, Ugo Mulas e Pino Musi: queste ultime a scandire «la narrazione del film in una dimensione che trascende la ricerca del “momento decisivo”», come ha detto Fasano. Ma il viaggio è anche polifonico, grazie all’apporto delle voci over di Suzanne Vega, Alma Jodorowsky, Monica Guerritore e Michele Riondino, che compongono una tessitura di lingue e punti di vista, tra cui emerge la voce e il pensiero dello stesso Pascali.

E il ritorno del film è anche, inevitabilmente, a un’altra stagione della Storia, dell’arte, della cultura non solo italiana, quegli anni Sessanta della Pop Art che Pascali attraversa e supera, di una contestazione che investe anche quella 34esima Biennale di Venezia a cui viene invitato. In questo frangente la scelta del bianco e nero, che sembra togliere qualcosa alla vitalità anche cromatica del mondo naturale e artificiale, materiale e onirico di “Pino”, si rivela funzionale a segnare il passo di una distanza che comunque c’è e con cui ci si deve confrontare. Una distanza che, tuttavia, viene colmata nell’ultimo, emblematico ritorno cantato dal film: bel suggello di un omaggio a un’espressività che trascende i limiti dello spazio e (soprattutto) del tempo.