Sguardi che (si) interrogano: continua il Concorso di Ca’ Foscari Short Film Festival

Vi raccontiamo i lavori presentati il 23 marzo in gara alla rassegna veneziana, dall'italiano Fly High al sudcoreano Remember Our Sister

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La relazione con l’altro, percepito in tanti sensi come “straniero”, è ancora uno dei temi chiave attorno a cui ruotano i corti del Concorso Internazionale di Ca’ Foscari Short Film Festival. Ma, soffermandosi sui lavori degli studenti-registi mostrati giovedì 23 marzo (che confermano l’elevata qualità media della selezione), si delinea più nitidamente un ulteriore costante delle opere sin qui visionate, l’interrogazione sullo (e dello) sguardo. Questi brevi film chiamano in causa il vettore chiave di ogni gesto cinematografico, che nella società della comunicazione e dello spettacolo onnipervasivi è anche il terreno elettivo di ogni dinamica di accettazione ed esclusione, potere e subordinazione, oppressione ed emancipazione.

È un elemento di rottura a livello prima di tutto visivo l’uomo volante dell’italiano Fly High, firmato da Giuseppina Fais, Lorenzo Pappa Monteforte, Kevin Rosso e Yagiz Tunceli (Centro Sperimentale di Cinematografia del Piemonte). Tutt’altro che un supereroe da cinecomic (niente maschere né mantelli, solo un’anonima giacca e cravatta), l’enigmatico personaggio, forse un messia neo-cristologico che non sa o non vuole dirsi tale, sorvola una metropoli affollata piena di gente senza volto. E diventa il fenomeno innalzato e poi demonizzato del circo (social)mediatico. Un’ulteriore prova di quanto l’animazione (nella rassegna che ha ospitato il maestro Bruno Bozzetto) sia una delle tecniche più gettonate ed efficaci per chi voglia sperimentare nella settima arte.

Un’immagine di Fly High, il corto d’animazione italiano in concorso al Ca’ Foscari Short Film Festival.

Lo vediamo bene anche con Swallow Flying to the South di Mochi Lin (Rhode Island School of Design), in una stop-motion che esprime l’appiattimento delle individualità tra le bambine incolonnate di un orfanotrofio nella Cina al tramonto della Rivoluzione Culturale (e a cavallo della morte di Mao). Ancora, è a colpo d’occhio che risalta l’elemento fuori dal coro, il disagio di una giovanissima singolarità che già sogna di volare via dai conformismi incrostati della Storia.

Il sottrarsi allo sguardo come emblema degli affetti perduti informa invece Footprints of Ants di Ümit Güç (Çukurova University, Dipartimento di Cinema, Radio e Televisione, Adana). Tra un avvio meta-cinematografico ed echi di pietas neorealistica, la difficile convivenza tra agricoltori autoctoni e profughi curdo-siriani, in una terra di miseria e piccole guerre tra poveri, ha una svolta nella scomparsa dall’orizzonte dei due piccoli protagonisti, a loro volta sulle vie di chi la guerra ha sottratto crudelmente alla sfera del visibile.

Così come la poliziotta (figlia di immigrati) Nancy cerca disperatamente di sottrarre l’immagine e la verità di un evento irreparabile alla bimba di una famiglia kosovara in via di sgombero forzato, nel thriller socio-psicologico austriaco Die unsichbare grende – Invisible Border di Mark Siegfried Gerstorfer (Filmakademie Wien). Una tragedia moderna scandita dall’orologio di una notte sbagliata e da una collisione di corpi e punti di vista inconciliabili, tra legalità disumana e umanità impotente. E sempre di divise che (ri)disegnano ruoli sociali si parla nel brasiliano Yuta di Matheus Malburg (FAAP – Fundação Armando Alvares Penteado), road-movie picaresco che ci riporta alla mente, con un sorriso dolceamaro, l’idea pasoliniana del calcio come “ultima sacra rappresentazione”.

Ricorda invece il discorso del Blow-Up di Michelangelo Antonioni, sul mezzo fotografico come potenziamento della nostra capacità di osservare (e comprendere) il reale, la vicenda narrataci da Maria Magdalena Jeziorowska nel polacco Biała Dama – The White Lady (Krzysztof Kieślowski Film School, Katowice). Che trova una protagonista femminile degna delle misure di un lungometraggio nella fotografa stanca e bevitrice che, tra noir e anomalo apologo femminista, sovverte a modo suo le gerarchie di uno sposalizio tossico.

Una scena di The White Lady, in concorso al Ca’ Foscari Short Film Festival.

E a proposito di occhi (e destini) che si incrociano e di riscatto, è sul prolungamento del nostro tempo di visione attraverso i long-take che si gioca la tensione del melodramma familiare-pugilistico Die Verlorenen (Academy of Media Arts Cologne), firmato da Simon Baucks. Mentre si tinge di humour nero lo scambio (di sguardi, anche qui) tra pendolari del divertente Morning Commutte di George Gray (Norwich University of the Arts), altro esempio di commedia britannica in gara, dove musica e telecinesi fanno imprimono svolte inattese al grigiore della routine.

In bianco e nero anche le figure umane di uno degli oggetti più incisivi e sorprendenti fra quelli proiettati allo Short il 23 marzo, In the Nation of Car Lovers (Akademija umetnosti Univerze, Nova Gorica), co-produzione Nepal-Slovenia diretta da Sagar Gahatraj. Dove i colori contrassegnano solo le merci, siano queste automobili o animali trasformati in nuovi uomini-schiavi. Una distopia figlia più degli incubi di Yorgos Lanthimos che delle metropoli sci-fi postmoderne, nonché una potente, disturbante allegoria di una società dove i diritti sono per chi può comprarseli. E dove la catena dello sfruttamento ha preso ormai la forma di un labirinto verticale senza uscita.

La capacità dei film in concorso di attingere proficuamente ai generi è ben evidenziata dal russo Pererug (Institute of Contemporary Art di Mosca) di Mikhail Philippovich Boreysha (scritto dall’italiano Diego Zucca). Quella che parte come una caccia stile Predator tra i boschi innevati diventa un’inquietante fiaba metafisica tra Dostoevskij e Dorian Gray. Dove, per chi ha visto in faccia il Male, il castigo, beffardamente, segue ogni buona azione, e nel delitto sta la salvezza fisica (opposta a quella morale).

Un’immagine di Pererug, in gara al Ca’ Foscar Short Film Festival.

Parte ancora dall’atto del guardare un’altra storia sul contrasto tra la legge morale e quella dei bisogni materiali, quella narrata nel bulgaro The Lord Is My Shepherd di Alexandar Tomov (Southwest University “Neofit Rilski”, Blagoevgrad). Da una giacca che attira l’attenzione di un’anziana ex infermiera, prende il via infatti una sequela tragicomica di colpi scena e paradossi degna di un affresco dei fratelli Coen (con tanto di citazioni bibliche).

Ma l’ultima, e forse la più destabilizzante, delle visioni presentateci il 23 marzo allo Short è quella di Ennolieul Gieoghae – Remember Our Sister (Dong-Ah Institute of Media and Arts, Anseong), coraggiosa e spiazzante denuncia di un orrore semisconosciuto, entro i confini del bordello-lager di un villaggio-base militare statunitense in Corea del Sud, basandosi su fatti veri accaduti tra il 1960 e il 2010.

Ma, al netto dell’intento dichiarato dalla regista Hayoung Jo di agire sulle coscienze degli spettatori «come un dossier appena rivelato», le armi espressive del film non afferiscono alla cronaca documentaristica, bensì alla capacità straordinaria del cinema coreano contemporaneo di ridefinire ed ibridare i codici della finzione. Qui, in particolare, quelli del musical, in un Mago di Oz alla rovescia dove la nuova Dorothy fa ingresso nella realtà, incappando con lo sguardo nella più atroce delle scoperte. E la canzone si fa coro, femminile, di protesta.