Teki Cometh, la recensione del vincitore di Tokyo 2024

Il film in bianco e nero di Yoshida Daihachi è il vero trionfatore del Festival

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Teki Cometh Tokyo 2024

Una storia nata sulla carta, dall’emblematico “Enemy” del 1998 dello stesso Yasutaka Tsutsui che firma la sceneggiatura del sorprendente Teki Cometh, film diretto da Yoshida Daihachi (Kami no tsuki e Funuke: Show Some Love, You Losers!) che al Tokyo Film Festival 2024 ha fatto incetta di premi, meritatissimi. Tanto quello al film, quanto a quello per la Miglior regia o per l’interpretazione di Kyōzō Nagatsuka, protagonista intorno al quale ruota un cast completato da Takiuchi Kumi, Kurosawa Asuka, Shinsuke Kato, Yumi Kawai, Satoru Matsuo e Takashi Matsuo.

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IL FATTO

Dopo la morte di sua moglie, Gisuke vive da solo nella vecchia casa di famiglia, dove nulla o quasi sembra poter interrompere la routine quotidiana del anziano professore universitario in pensione. Tra visite di ex studenti e studentesse, appuntamenti ricorrenti con amici storici e qualche articolo e conferenza da preparare – e farsi pagare, anche non poco – i giorni scorrono più o meno tutti uguali, in attesa e nella speranza di arrivare soddisfatto e realizzato al termine di una esistenza che sembra aver lasciato il segno. Se non fosse che un giorno, tra le tante mail di spam, sul suo computer appare un messaggio inquietante che annuncia e minaccia l’arrivo di un fantomatico nemico

Teki Cometh Tokyo 2024

L’OPINIONE

Sin dalle prime immagini appare evidente quanto sonoro e immagini, l’aspetto visivo, siano fondamentali nella narrazione, almeno a vedere come veniamo accolti e quanto quel che vediamo concorra a costruire il contesto della vita di questo professore. Una quotidianità nella quale tutto è routine, piccoli gesti ai quali veniamo introdotti e ai quali piano ci abituiamo anche noi, con cui il regista lentamente sviluppa una ragnatela fatta di movimenti di macchina e di scrittura, nella quale ritroviamo diversi personaggi, pochi, variamente caratterizzati ma ricorrenti, come l’amico di sempre, la nipote del precedente proprietario del bar dove si vedono, una sua ex studentessa, con la quale si reitera un’abitudine stagionale a incontrarsi, oltre ad altri ex studenti che lo aiutano in diverse maniere.

Ma che non lo distolgono dai pensieri più cupi, su una sorta di preparazione alla morte che sembra ossessionare il professore in pensione, poco entusiasta della prospettiva di essere troppo in salute, impegnato continuamente ad aggiornare il conto di fino a quando potrà permettersi di vivere, stante quello che gli serve e che può ancora guadagnare… Una cortina fumogena che piano si dirada, permettendoci di concentrarci sui suoi rapporti, sull’uomo dietro la facciata di rispettabilità, incapace di essere veramente libero o sincero con sé stesso. Sulle sue debolezze, che piano prendono il sopravvento, dandoci la vera misura del suo invecchiare, intrecciandosi con gli effetti di questo invecchiamento. In primis il non aver mai potuto avere il rapporto che avrebbe sognato con questa giovane donna, mai posseduta.

Uno dei desideri inespressi, irrealizzati, che dominano il film e che anche lui percepisce – gradualmente, non del tutto consapevolmente, quasi istintivamente, subliminalmente – finendo con il confondere la realtà con la fantasia. Su diversi livelli. Sia quelli più personali, sentimentali, erotici, sia quelli che raccontano le notizie, nelle quali prende il sopravvento la paranoia, le fake news, gli annunci dell’arrivo di un fantomatico ipotetico nemico che ha scatenato un’ondata di rifugiati. Voci sempre più insistenti, che sostituiscono la ormai esorcizzata paura della morte con la più classica paura del diverso, scatenando una crisi che lo confonde, lo fa perdere, fa saltare ogni sovrastruttura e (auto)giustificazione, costringendo a vedersi come è, un ometto roso dal desiderio e incapace di abbandonarvisi, vittima delle proprie vigliaccherie.

L’accettazione di tutto questo potrebbe arrivare solo in extremis, forse, ammesso che sia la realtà quella che il film racconta, vista l’abilità del regista a lasciare il dubbio – soprattutto in alcune situazioni, troppo surreali per essere plausibili – e insieme la possibilità di una sorpresa (che pure in conclusione non manca). Perché noi non si dia nulla per scontato, si ignori la convinzione che sia tutto un sogno o che ci sia qualcosa di vero. Si accetti il nostro di ruolo, di spettatori, di una serenità raggiunta nell’ultima stagione di quest’uomo, nella soddisfazione dell’ultima richiesta, l’unica che gli permetterebbe di non lasciare mai la casa nella quale ha continuato a vivere con i propri fantasmi. Quelli che lo conoscono davvero. Quelli che hanno sempre dato un senso alla sua vita, e continueranno a darne uno a quella di chi resterà.

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Yoshida Daihachi ha ammesso di essersi tuffato nella storia del cinema giapponese preparandosi al suo film, finendo per esserne sopraffatto. Per evitare questo rischio, perché non cambiare completamente registro (fermo restando che potreste seguire il suo esempio) e guardare a chi con il bianco e nero ci ha regalato grandi titoli, tanto nel racconto di relazioni amicali e sentimentali – come Jim Jarmusch – quanto familiari, come nello splendido Nebraska di Alexander Payne.