The Last Hillbilly – recensione del documentario premiato al Torino Film Festival

La nostra recensione di The Last Hillbilly, di Diane Sara Bouzgarrou e Thomas Jenkoe, Miglior Documentario Internazionale al TFF.

0

Brian Ritchie è un hillbilly, termine dispregiativo che indica, letteralmente, gli “stupidi delle colline”: «ignoranti, poveri, violenti, razzisti, incestuosi. Ed è tutto vero», racconta lui. Siamo a Talcum, Kentucky Orientale, in quell’America profonda dove si vota Trump e sventolano le bandiere confederate. Ma The Last Hillbilly il film di Diane Sara Bouzgarrou (I Remeber Nothing) e Thomas Jenkoe (Memories from Gehenna) premiato come Miglior Documentario al Torino Film Festival (sezione TFFdoc/Internazionale) vuole andare oltre il luogo comune. 

Come lo stesso Ritchie, che si definisce “l’ultimo hillbilly”, appropriandosi dello stereotipo e facendone il perno di una (anti)epica del declino e della depressione. Brian canta una terra e un’umanità che sta marcendo, ogni giorno. Tra inquinamento, abbrutimento socio-culturale, assenza di prospettive e di identità: un tempo, spiega Brian, gli hillbillies erano montanari, poi sono diventati minatori, e ora non sono nemmeno più quello, perché «il carbone non c’è più». E non rimane molto da fare, a parte sparare ai cervi, «perché lo abbiamo sempre fatto, perché non sappiamo cos’altro fare e perché se non lo facciamo più non siamo più noi».

Del cinema, sempre più frequentato, che indaga la crisi dell’America contemporanea (a questo TFF abbiamo visto, fra i lungometraggi di finzione, anche The Evening Hour di Braden King), The Last Hillbilly è uno degli esempi più radicali. Perché fa suoi gli strumenti di un cinema del reale aspro e quasi impressionista per immergerci (non senza punte di umorismo nero, specie verso la fine) nella quotidianità pigramente mortifera di una Waste Land (titolo di uno dei tre capitoli in cui è diviso il film, non a caso), provincia di desolazione materiale e morale. Aprendo con l’immagine durissima di un cervo che muore nell’acqua di un ambiente reso malsano, mentre il formato dell’inquadratura si restringe progressivamente. E proseguendo, in un emblematico formato 1.33 che preclude allo sguardo ogni vastità mitica, con la ruotine della famiglia Ritchie, scandita e commentata dalle registrazioni dello stesso Brian. 

È lui ad aver mosso l’interesse dei due documentaristi francesi «offrendosi», raccontano, «di mostrarci “il vero Kentucky”». Brian è il cronista apocalittico di un mondo agonizzante e di un’umanità che sembra scontare la nemesi di una storia di sopraffazioni, terre rubate nel sangue a chi c’era prima e sfruttamento della natura. Brian e i suoi figli (veri protagonisti dell’ultimo capitolo, The Land of Tomorrow), che si dondolano tra noia e una tecnologia che il padre non capisce fino in fondo, figli di un cambiamento arrivato troppo presto e già orfano di senso. Bambini che, affermano i due filmmaker, «si impongono con la loro ingenuità e il loro istinto vitale che è in netto contrasto con l’intorpidimento di Brian». Ma su cui incombe comunque (e anche peggio) lo stesso vuoto, come una minaccia o una condanna. O, come aggiungono i registi, la (in)diretta richiesta d’aiuto in quel «mondo in macerie che dovranno ricostruire».