The Oak Room – la recensione

Al Torino Film Festival, nella sezione Le stanze di Rol, il cupo noir The Oak Room, di Cody Calahan, con R.J. Mitte e Peter Outerbridge.

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La fine di una storia, dice il giovane Steve (R.J. Mitte) all’attempato e ostile barista Paul (Peter Outerbridge) ha senso solo se ascolti l’inizio. Un assioma solo apparentemente scontato, specialmente nella tradizione del cinema noir. Perché The Oak Room, diretto da Cody Calahan e tra le visioni proficuamente inquietanti delle Stanze di Rol al Torino Film Festival (fino alle 14 del 29 novembre), è un noir, su questo (almeno) non ci sono dubbi. E, come i migliori noir, la storia (anzi, le storie) che contiene, non cominciano mai davvero dall’inizio. 

Tante, troppe cose sono accadute prima della scena iniziale del film, con l’arrivo di Steve nel locale di Paul, durante una notte di tormenta in quell’angolo sperduto, gelido e buio del Michigan. Sono anni che Steve l’«universitario» (come lo chiama con disprezzo Paul) non si fa vedere, e non è un ritorno gradito. L’altro, infatti, non vuole saperne di consegnargli le ceneri del padre, e anzi chiama a raggiungerli un creditore che non ha dimenticato i debiti di Steve. Ma questi, nel frattempo, ha qualcosa per Paul. Un sottobicchiere con scritto sopra il nome di un altro locale, l’Oak Room. E, soprattutto, una storia da raccontare.

Parte da qui un labirinto di narrazioni dove ogni storia rimanda a un’altra, dove il passato richiama altro passato, gli incipit si rivelano epiloghi e i narratori si interrompono a vicenda e si scambiano di ruolo. E si può prendere alla lettera questo gioco e lasciarsi andare al crescendo di tensione della sceneggiatura di Peter Genoway, al rivelarsi dei personaggi e (ancora una volta) della brutale provincia americana. Ma si può anche leggere questo gioco di digressioni interconnesse come un’altra tappa di quella via del noir che, tra un delitto e l’altro, riflette (mentre ci racconta una e più storie) sull’atto stesso del raccontare. Una strada che dall’analessi del classico La fiamma del peccato passa per gli incastri postmoderni di Pulp Fiction e gli anelli di Memento. Perché attraverso le storie si legittimano le civiltà, e attraverso le storie (e la loro disarticolazione) se ne certifica la crisi profonda.

E malgrado i debiti con i predecessori ci siano, il film di Calahan (sua la saga horror Antisocial) riesce, come il protagonista, a tenerci incollati al suo racconto di racconti e, forse, a far vacillare qualche nostra certezza. Merito certamente di una regia che trasfigura l’ambientazione in un paesaggio mentale da incubo, tra colori carichi e contrastanti, discese in cantine buie e rarefazioni oniriche (senza per questo mai oltrepassare il confine con l’horror). E merito di un cast credibile dove spicca un sorprendente Mitte (già figlio del Walter White di Breaking Bad). Ma merito anche, e soprattutto, di una scrittura che assume la posta in gioco fino in fondo, dipingendo un affresco umano che, senza uscire neanche per un secondo dai codici di genere, rappresenta meglio di un trattato di sociologia il ripiegamento di una cultura e dei suoi pilastri (narrativi).

È infatti una Bibbia rovesciata e nerissima quella di The Oak Room: dove il figliol prodigo torna troppo tardi e lo accoglie un vecchio armato di mazza da baseball, le pecorelle smarrite sono soppresse e a sostenere i viandanti in difficoltà non ci sono buoni samaritani ma ubriaconi vigliacchi e ambigui baristi. E dove, come impara a sue spese il padre di Steve, l’Inferno è rimasto l’unica meta possibile, perché è già tutto in una vita che «gira a vuoto senza fare alcun progresso». Eppure, si intravede in tanta oscurità anche qualcos’altro: forse semplicemente la possibilità di far prendere a destini già scritti una piega diversa, grazie proprio alle verità, spesso terribili e non sempre esplicite, delle storie che si raccontano. Perché forse, in una società che ormai si sgretola congelata, una nuova storia è proprio ciò che ci può salvare.

Voto: ***½