Il tanto atteso – e rimandato (considerando la rinuncia al progetto di A Manual for Cleaning Women) – primo film in lingua inglese di Pedro Almodóvar si mostra a Venezia 81, dove è in concorso per il Leone d’Oro. E forse per qualcun altro dei premi disponibili, soprattutto per le interpreti, vista la prova di Tilda Swinton e Julianne Moore, protagoniste del The Room Next Door che, dopo l’uscita spagnola del 18 ottobre, dovrebbe arrivare nei nostri cinema dal 5 dicembre, distribuito da Warner Bros. Pictures con il titolo di La stanza accanto. Un adattamento molto sentito del romanzo Attraverso la vita di Sigrid Nunez, che proprio al Lido il regista ha descritto come “in favore dell’eutanasia“, una storia di sentimenti e rimorso, sui diversi modi di raccontare la vita e di affrontare la morte.
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IL FATTO:
Martha (Swinton) è la madre imperfetta di una figlia rancorosa, tra di loro – separate da un grave malinteso – c’è un’altra donna, amica della madre, custode del loro dolore e della loro amarezza. Insieme nella casa costruita nel mezzo di una riserva naturale nel New England, le due – reporter di guerra la prima, romanziera autobiografica la seconda – sono le principali protagoniste di un film che affronta la crudeltà infinita della guerra, mentre analizza i modi molto diversi in cui le due autrici si avvicinano e scrivono della realtà, della morte, dell’amicizia e del piacere sessuale, i nostri migliori alleati nella lotta contro l’orrore.
L’OPNIONE:
Meravigliose protagoniste di tutti i suoi film migliori, sono ancora le donne l’alter ego di Pedro Almodóvar. A loro, ancora una volta, il regista affida il suo pensiero e il messaggio di un film nel quale sono molti i temi cari allo spagnolo, organizzati in maniera più o meno riuscita intorno all’intenso rapporto di amicizia tra Julianne Moore e Tilda Swinton. Un amore, come lo ha definito l’attrice di La Voz Humana, capace di affrontare e superare la morte, i dolori di ciascuna, in nome di un legame simbiotico nel quale è quella che dovrebbe essere più debole a dare forza all’altra, ma soprattutto i limiti che la società spesso impone agli esseri umani, negando loro dignità e libertà di scelta in un momento tanto privato e indisputabile come quello della morte.
Come sempre, in Almodovar la forma diventa sostanza, o ne partecipa, e così la conclamata abilità del regista a costruire inquadrature capaci di suggerire livelli diversi con forme e colori, rimandi e citazioni, sovrapposizioni di elementi umani e non, diventa la cornice perfetta per il gioco delle parti che si sviluppa tra due personaggi caratterizzati in maniera pregevole. L’una nella sua fragilità, nell’incapacità di accettare che la vita debba lasciare spazio alla morte prima del dovuto, ma pronta a non ostinarsi a mettere le proprie convinzioni davanti al dolore e al libero arbitrio dell’amica, l’altra, forte della sua consapevolezza, già presenza sfuggente, fantasma prossimo a trovare nuova vita – con la figlia, oltre che per l’amica – dopo la fine.
La partecipazione dei due personaggi alla composizione suddetta, qui più che in altre occasioni, fa sì che emergano i dialoghi, ricchi di riferimenti importanti e di temi già trattati altrove da Almodóvar (la crisi climatica, l’avanzata di movimenti che ai diritti civili si oppongono, il fondamentalismo cattolico, la regolamentazione del “fine vita”, intorno alla quale ruota la storia), eppure in alcuni momenti retorici e macchinosi. O deboli, come l’accenno piuttosto banale e stereotipato ai pericoli del dark web o alle moderne preoccupazioni che esprime il personal trainer della palestra.
Dettagli, ma che si ripetono, e che si aggiungono alle frettolose ed evitabili parentesi che ci portano fuori dalla casa di Midtown dove vive Ingrid e il Prelude Café dove le due si incontrano, o dal cottage nei dintorni di Woodstock dove si trasferiscono, per portarci nel passato della nostra reporter di guerra e del suo ex compagno, tormentato dal disturbo da stress post-traumatico (che spera di risolvere aiutando la gente “a trovare la pace”). Momenti che interrompono un flusso che, per quanto teatrale e – soprattutto inizialmente – appesantito da necessarie spiegazioni, è facile seguire, lasciandosi coinvolgere dalla forza emotiva delle due figure in scena e dalla grande lezione di rispetto e umanità della quale il regista le rende ambasciatrici.
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Volendo seguire il consiglio di Tilda Swinton, che considera questo il suo “successore naturale”, potrebbe valere la pena di recuperare il precedente film del regista spagnolo, Dolor y Gloria. Ma per comprendere a pieno il mondo del manchego e il suo processo emotivo e personale, non si può prescindere dai film migliori dei suoi ultimi anni, successivi al Tutto su mia madre del 1999. Per temi e immagini, vi consigliamo di inanellare Parla con lei (2002), La mala educación (2004), Volver – Tornare (2006) e Gli abbracci spezzati (2009).