In concorso al Torino Film Festival, sotto l’egida di altre tre importanti manifestazioni dedicate al cinema (Cannes, Toronto e San Sebastián) arriva Memory House (in originale Casa de antiguidades), lungometraggio d’esordio del brasiliano João Paulo Miranda Maria. Un film che, a modo suo, parla (anche, e molto) di immigrazione, ma non nel modo in cui tanto cinema contemporaneo ci ha abituato. È infatti attraverso le vie di un rarefatto e onirico “realismo magico” che il regista esplora i pregiudizi, l’emarginazione e la violenza subiti dal protagonista Cristovam, un anziano lavoratore dell’industria casearia spostatosi dal Nord-Est al più ricco Sud del Brasile. E, in particolare, in un piccolo villaggio fondato e popolato da coloni austriaci: dove il capitalismo delle delocalizzazioni e dei tagli di stipendio si (con)fonde con ostilità legate al colore della pelle, alla provenienza e al mondo di simboli e tradizioni incarnato da Cristovam, neo-colonizzato riluttante che si immerge via via negli oggetti e nelle presenze della Casa de antiguidades che dà il titolo al film.
Lo interpreta il bravissimo Antonio Pitanga, grande volto del cinema brasiliano e in particolare di quel Cinema Novo che, con maestri come Glauber Rocha e Joaquim Pedro de Andrade, portò un’ondata di rinnovamento paragonabile a quelle del neorealismo italiano e della Nouvelle Vague. «Fin da quando ho scritto il film nel 2015», ha dichiarato Miranda Maria in conferenza stampa, «ho sempre pensato a Pitanga come il mio protagonista». E l’ottantunenne attore si cala senza compromessi in questo ruolo difficilissimo, accettando anche, come ha sottolineato il regista, la sfida di «lavorare con il silenzio». È infatti un film di pochissime parole Memory House, e di immagini evocative a cui la macchina da presa si avvicina (o da cui si allontana) con movimenti lentissimi e prolungati che contribuiscono a immergerci in una dimensione dentro e fuori dal tempo: perché, come specifica Miranda Maria, la parabola di Cristovam può aver luogo anche in altre epoche, parlando «di oggi ma anche di domani, di un futuro che a sua volta è legato al passato».
Passato, presente e futuro diversamente allarmanti: perché nell’allegoria eminentemente politica del regista, Cristovam rappresenta l’«universo collettivo» del patrimonio culturale brasiliano messo in pericolo dal nuovo autoritarismo razzista dell’era Bolsonaro. Miranda Maria a questo proposito ha denunciato esplicitamente il rischio di «spegnimento, estinzione della cultura brasiliana e anche della religione popolare», affermando la necessità di opporsi a tale deriva anche attraverso il lavoro artistico, perché «non c’è arte senza resistenza, senza sviluppare una lotta». Non a caso tra i riferimenti dichiarati del regista ci sono i maestri del Cinema Novo, nato nella regione del Sertão da cui proviene lo stesso protagonista del film. Ma ci sono anche autori come Pasolini e Antonioni, ispiratori di un cinema che «non solo piaccia, ma provochi, per poter trasformare».
Ed è un’opera che rende un buon servizio a questi maestri del cinema, Memory House, perché si schiera in modo non banale, perseguendo le vie più complesse e rischiose per costruire i suoi personaggi e i suoi mondi dentro (e oltre) altri mondi: valorizzando le sfaccettature (non è privo di difetti e contraddizioni, Cristovam), in un film che «non mette il bene contro il male, ma vuole mostrare queste problematiche, presenti anche all’interno di noi: Bolsonaro è stato eletto democraticamente sapendo esattamente di chi si trattasse». E giocando con gli immaginari, compreso quello di un «Far West rustico» dove è centrale la figura del “Boladeiro”, il cowboy braisiliano. Un viaggio affascinante e insieme allarmante, per un autore e un film (disponibile in streaming fino alle 14 del 25 novembre) da tenere particolarmente d’occhio, anche in vista dei riconoscimenti di questo festival.