#Torino40 : il regista Luca Sorgato racconta il suo corto Zio Palmiro

Il film, interpretato da Giacomo Laser, Toni Pandolfo e Giovanni Bagnasco, è stato presentato in concorso nella sezione Spazio Italia del 40mo Torino Film Festival.

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Al 40° Torino Film Festival, tra i protagonisti della sezione competitiva Spazio Italia, dedicata ai corti italiani, c’è stato anche Luca Sorgato col suo nuovo lavoro Zio Palmiro, da lui scritto, prodotto (insieme a 5e6 Film) e diretto. Muovendosi ancora sulla scorta di quello che definisce ormai un «pozzo da cui attingo praticamente tutti i giorni», ovvero l’opera di Attilio Lolini (1939-2017), poeta, scrittore e collaboratore de Il manifesto i cui versi hanno già ispirato la precedente trilogia di Sorgato, formata dai corti Ventilatore (2018) Pistacchi (2019) e Sbadigli (2020), con cui ha già vinto diversi riconoscimenti fra cui il Premio Miglior Regia Colpo d’Occhio al Lamezia International Film Festival 2019, il Premio per il miglior cortometraggio e la miglior regia al Collateral 102 Cinefest del 2020 e quello per il Miglior film al Beijing International Short Film Fest 2021. Lo abbiamo intervistato a proposito di Zio Palmiro e del suo primo lungometraggio attualmente in lavorazione.

Il regista Luca Sorgato. ©beynot

Dopo la “trilogia della disillusione” come sei arrivato a Zio Palmiro?

Sono partito dal testo dell’Ecclesiaste, nella lettura di Attilio Lolini, che non a caso sentiamo all’interno del film, che ruota attorno al concetto di fortuna, intesa come “malattia”: qualcosa che, se ce l’hai, te la tieni, non puoi chiederla in prestito o rubarla. Ho abbinato perciò tre componenti: la prima è Lolini, appunto, la seconda una fotografia di un uomo trovata in un mercatino, e che mi aveva colpito al punto da volerla rendere un personaggio, e infine un ricordo di mia nonna, ma talmente mescolato alla finzione da essere quasi irriconoscibile.

Ovvero?

Mia nonna era una grande giocatrice d’azzardo, aveva la fortuna dalla sua parte. Il che mi ha spinto a sovrapporla al personaggio di Palmiro. Solo che, mentre mia nonna era molto generosa (non navigava nell’oro ma le vincite spesso le regalava ai vicini o parenti), Palmiro invece è un vero tirchio! Un fortunato che al massimo fa regalini da poco conto. Dalla parte opposta c’è il personaggio di Antonello, totalmente privo di fortuna, che cerca di estorcere almeno un ambo allo zio defunto, il quale si prende gioco di lui. Inseguire la fortuna perciò è inseguire il fallimento. E anche qui c’è in fondo un riferimento a me: mia nonna è mancata nel 2019, e io tuttora aspetto i numeri da lei! Ma è una speranza illusoria…

Nei tuoi film tratti dall’opera di Lolini metti a fuoco il tema della disillusione, dipingendo un mondo orfano di speranze, prospettive e appigli ideologici. C’entra qualcosa il tuo essere nato negli anni ’80, crescendo perciò in un’epoca di crisi delle utopie novecentesche?  

Credo proprio di sì. Diciamo che, essendo nato a metà degli anni Ottanta, mi sono accorto “della fine della festa”, come quando entri la mattina nel salone di un oratorio o in una discoteca, dove hanno festeggiato fino a qualche ora prima, e vedi che il tempo ha sancito la fine di un evento. Non dico di essere senza speranza, la speranza c’è sempre, credo che sia nei dettagli della vita, va un po’ cercata tra i fili d’erba, tra i lampioni, tra le vigne. È un modo di stare al mondo. Credo che a questa mia visione abbia contribuito la mia formazione televisiva, avendo lavorato a lungo per una rete nazionale come Mediaset: lì mi sono accorto che era lampante questa “fine della festa”, questa decadenza televisiva, che mi ha portato a pensare. E a voler trovare una sorta di divertimento nel creare dei piccoli film, per togliersi un po’ questo senso di colpa da cui siamo afflitti quotidianamente: non un senso di colpa religioso, ma un sentirsi dentro un periodo storico dove viviamo inevitabilmente in modo sbagliato.

E tutto ciò si rispecchia nel lavoro di Lolini.

Lolini ha scritto di questo, anche prima e anche dopo gli anni ’80, nella sua poetica c’è il seme della disillusione, calato nel quotidiano, come un guardarsi allo specchio, un decadimento del corpo, che peraltro non vedo in modo totalmente negativo, anzi sono contento di invecchiare. Ma è una consapevolezza della vita che sfiorisce, senza essere troppo cupi.

Parlando del tuo stile cinematografico, alcuni elementi di Zio Palmiro, il grottesco, l’uso del bianco e nero, la desolazione di un universo tutto al maschile, mi hanno fatto venire in mente Ciprì e Maresco. Sono stati dei riferimenti per te?

Ciprì e Maresco sono dei grandi autori ma non li ho mai avuti come un riferimento, pur accorgendomi che ci sono delle sintonie, più casuali che intenzionali. I miei riferimenti principali, probabilmente ben lontani dal risultato finale, sono Aki Kaurismaki, João César Monteiro, Elio Petri e Luca Ferri. Quest’ultimo lo conosco di persona, di Petri, a proposito del grottesco, ti citerei soprattutto i primi due film, L’assassino e I giorni contati, che riguardo costantemente, l’ultimo, Buone notizie, e anche La proprietà non è più un furto.

Interessante in Zio Palmiro anche l’uso delle musiche, firmate guarda caso da Ruggero Lolini. Ci racconti com’è andata?

È stato un regalo inaspettato, arrivato dopo le riprese e addirittura dopo il montaggio. Quando scopro che si può fare “tutto in casa”, sono contento! E perciò, scoperto che il cugino di Lolini, Ruggero, è un grandissimo compositore, ho acquistato dei vinili e ho provato ad accostare la musica al film. Molte erano opere liriche, quindi non molto in sintonia col mio lavoro, poi però ho trovato questa compilation dove Ruggero Lolini compone la traccia numero 3: appena l’ho ascoltata mi è sembrato davvero che l’avesse composta per il film, non solo per zio Palmiro ma anche per il lungometraggio a cui sto lavorando, Il Tagliateste, di cui zio Palmiro è una sorta di spin-off.

Che ci puoi dire di questo lungometraggio?

Parte dall’unico romanzo di Attilio Lolini, Morte sospesa, del 1987. Ho avuto la fortuna di poter lavorare sulle bozze preparatorie del libro: Lolini infatti ha scritto questo romanzo in circa dieci anni, e la versione pubblicata è praticamente illeggibile, credo abbia voluto fare un lavoro di smembramento, di cannibalizzazione dell’opera. Ho ricevuto però i faldoni originali dalla moglie, e andando a ritroso mi sono accorto che nelle bozze precedenti cambiava il titolo e il romanzo era sempre più completo, si riusciva sempre più ad avere una visione generale della vicenda. Ho preso uno dei titoli preparatori che mi piacevano di più, Il Tagliateste, appunto.

A che punto sei del lavoro?

Sto assemblando la sceneggiatura, ora completa al 60%: ho inserito una serie di riferimenti più personali, al punto che ormai è come se gli ingredienti miei e di Lolini si fossero sciolti insieme in unico gusto. Resta comunque il fatto centrale del libro, che è un omicidio efferato, col corpo di un ragazzino trovato decapitato su una spiaggia vicino al mare.