Vakhim – Francesca Pirani racconta il doc che conclude le Notti Veneziane

Abbiamo intervistato la regista, che in questo film racconta la storia del figlio adottivo, arrivato dalla Cambogia nel 2008 a quattro anni, e il loro viaggio 15 anni dopo per ritrovare la madre biologica

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«Tutti i miei amici, di cinema e non, mi dicevano di raccontare la storia di Vakhim perché è eccezionale», ci dice Francesca Pirani, già aiuto regista di Marco Bellocchio (per La visione del sabba, di cui è anche co-sceneggiatrice, e Il sogno della farfalla), poi a sua volta filmmaker con titoli come L’appartamento, Una bellezza che non lascia scampo, BEO. In Vakhim (presentato al Lido chiudendo le Notti Veneziane delle Giornate degli Autori) la cineasta narra la sua storia e quella del figlio (il cui nome dà il titolo al documentario), nato in Cambogia e adottato nel 2008 quando aveva solo quattro anni.

Il film (che ha iniziato a prendere forma con la partecipazione del progetto al Premio Solinas nel 2019) segue la crescita del ragazzo, l’evoluzione del rapporto con i suoi nuovi genitori e il complesso rapporto con le proprie origini fino ad oggi, partendo dagli anni dell’infanzia, ricostruita attraverso il montaggio dei filmati di famiglia, per poi cambiare stile nella seconda parte, dove viene mostrato, tra inserti reali e di finzione, il viaggio di Vakhim e della sorella Maklin per incontrare la madre biologica, che non vedono da quindici anni.

La posta in gioco di Vakhim, allora, è il recupero di una parte rimossa della sua identità: «Quando ci si separa violentemente da qualcosa», riflette Pirani, «spesso facciamo il buio, ci perdiamo un pezzo. Ma se vuoi bene a un bambino non gli fai un buon servizio facendolo crescere con questo vuoto alle spalle».

Il cinema allora, nel doc della regista, si fa quasi strumento psicanalitico, a volte anche innescando reazioni che muovono l’elaborazione del vissuto emotivo, come nella sequenza in cui Vakhim e la sorella sono intervistati sul desiderio di tornare in Cambogia e tra i due emerge un contrasto di vedute: «Quella ripresa», specifica Pirani, «era la prima cosa che ho fatto per “rompere il ghiaccio”, e non ci aspettavamo una simile reazione di Vakhim: lei è rimasta malissimo, si è alzata, si è messa a piangere, non gli ha parlato per un giorno. Da lì si sono sicuramente smosse delle cose».

La riscoperta del proprio passato da parte del protagonista è anche la scoperta, da parte della regista, di una Cambogia rurale piena di calore umano, malgrado l’estrema povertà. «Siamo rimasti sorpresi dal fatto che la gente del Paese, soprattutto in campagna, fosse così dolce, pur vivendo nel fango. C’era un clima di grande tenerezza e allegria, e per la mia esperienza il film trattiene l’atmosfera che c’è nei set».