VENEZIA 73: JERZY SKOLIMOWSKI RICEVERÀ IL LEONE D’ORO ALLA CARRIERA

0

Bene o male siamo sempre lì, ai fatidici e tuttavia (opinione personale) mai abbastanza rimpianti anni ’60. Infatti, al pronti-via della decade, ecco da tutta Europa spuntare tanti giovani cineasti pronti a rivoltare come un calzino forme e contenuti del cinema, tra cui per l’appunto gli enfants terribles Polanski e Skolimowski in Polonia.

Quel che prima era “bel” racconto sceneggiato e accademia, ora diventava schermo pulsante di vita, di idee, magari di “imperfezioni” che rivelavano però urgenza, ribellione e voglia di emanciparsi. E la forma del racconto si adattava ai nuovi contenuti. Quel che prima non era concepibile ora era rischiato, persino con impudenza («Più si rompeva con le convenzioni filmiche, più la cosa mi andava a genio», ricorda il nostro eroe. Tanto per fare qualche nome e cognome: dall’Inghilterra i Richardson, i Reisz, gli Anderson, dalla Francia i Truffaut e i Godard, dall’Italia i Bellocchio e i Bertolucci (ma anche Olmi e Pasolini). Da oltrecortina i Forman in Cecoslovacchia, i Tarkowsky nell’URSS, i Makavejev in Jugoslavia…più tanti altri compresi ovviamente i due citati.

Figlio di un eroe della resistenza, laureato in etnologia, jazzofilo, squisito scrittore di poesie, pugile, Jerzy Skolimowski da Lodz (5 maggio 1938) si dimostrò animo inquieto da subito. E anche la famosa scuola di Cinema di Lodz (appunto), dove si laureò in regia, conobbe la sua fame di esperienze e irrequietezza. Amico di Wajda e di Polanski (con cui collaborò alla sceneggiatura del capolavoro-manifesto Il coltello nell’acqua), colpì al plesso solare dell’establishment culturale nazionale con i suoi primi lungometraggi Ryposis (1964), Walkover (1965, uno dei più bei film sulla boxe mai realizzati, con lui stesso inevitabilmente protagonista), Barriera (1966). Con Il vergine (1967), suo primo lavoro fuori confine (protagonista Jean Pierre Leaud) si aggiudicò l’Orso d’Oro a Berlino. Curiosamente, da quel trampolino che avrebbe potuto lanciarlo nell’Olimpo dei massimi cineasti del mondo, Skolimowski alternò tuffi straordinari a qualche spanciata tremenda, preferendo sempre la sua autonomia, la sua sensibilità di artista libero e insofferente, alla pratica metodica del professionista navigato.

Così tra exploit magnifici (La ragazza del bagno pubblico, 1970, L’australiano, 1978, Moonlighting, 1982, La nave faro, 1985) ecco pause esistenziali, cadute imprevedibili (Le avventure di Gerard, 1970 – un avventura con humour ai tempi di Napoleone che andrebbe peraltro rivista – Un ospite gradito per mia moglie, 1972, Acque di primavera, 1989, Ferdyduke, 1991), esperimenti per palati fini (Mani in alto!, 1981, Il successo è la miglior vendetta, 1984, il recente 11 minuti, 2015). Per questo Jerzy Skolimowski ha illuminato solo a sprazzi il mondo del cinema con le sue 23 regie e anche con le sue prove d’attore (con la sua faccia dai lineamenti forti e non banali lo ricordiamo in La promessa dell’assassino, 2007, di Cronenberg e persino in The Avengers, 2012), ma conservando comunque sempre una ammirevole integrità d’artista («interferisco in tutto: il lavoro degli attori, la sceneggiatura, la fotografia, la scenografia. Tutto è un collage dei miei diversi interventi. Mi sento autore al cento per cento»), deciso a percorrere la “sua” strada, tra patria e resto del mondo: «Capisco solo in polacco e senza la possibilità di prendere un po’ d’aria in Polonia divento un cretino cosmopolita. Ma nello stesso tempo amo viaggiare e lavorare fuori delle Polonia. Quando torno è come vedere tutto con un altro paio di occhiali».

TRE SUOI FILM CULT:

1) L’AUSTRALIANO (G.B., 1978). Con Alan Bates, Susannah York, John Hurt. Un misterioso personaggio – siamo in un manicomio – che dice di aver appreso dagli aborigeni australiani l’arte di uccidere con un urlo terrificante, narra a un ragazzo di come si sia insinuato nella vita di una apparente coppia felice. Gran Premio Speciale dalla Giuria di Cannes, da una novella di Robert Graves, Il racconto di un pazzo, che diventa nel montaggio di Skolimowski un enigmatico horror metafisico.

2) MOONLIGHTING (1982). Con Jeremy Irons, Jiri Stanislav, Eugene Lipinski. Quattro polacchi arrivano a Londra per ristrutturare, pagati al nero, un appartamento. Durante i lavori, il caposquadra scopre che in patria c’è stato un colpo di stato, ma, pur angosciato, decide di non dire nulla ai compagni. Premio per la sceneggiatura a Cannes, un film costruito sull’onda emotiva di avvenimenti quasi contemporanei, unito ai ricordi del regista che si trovò nel 1978 a ristrutturare quasi da solo una casa acquistata a Londra.

3) LA NAVE FARO (1985). Con Robert Duvall, Klaus Maria Brandauer, William Forsythe. Tre banditi irrompono in una nave ancorata presso le coste della Virginia e che ha il compito di segnalare la rotta. Tensioni e violenze tra l’equipaggio, comandato da un reduce dall’inglorioso passato bellico e i banditi. Tra Conrad e John Huston, un film dal fascino “anticato” nonostante le difficoltà sul set causate dall’egocentrismo di Brandauer. Tre premi a Venezia, due per uno straordinario Duvall, più uno Speciale della Giuria.