Venezia 81 – Alle Giornate degli Autori parla Tahar Ben Jelloun: «A Gaza c’è un genocidio, ma non possiamo dirlo»

Abbiamo incontrato lo scrittore, al Lido come Presidente della Giuria di Bookciak, Azione! e per l'incontro dello spazio Confronti alle Giornate degli Autori: «La guerra non ha nessun sentimento, nessuna morale, nessun pensiero».

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Può sembrare paradossale, ma Tahar Ben Jelloun, scrittore francofono tra i più letti, Premio Goncourt per il romanzo Notte fatale, nominato per il Nobel e autore del long-seller Il razzismo spiegato a mia figlia, ha pubblicato il suo ultimo libro L’urlo. Israele e Palestina. La necessità del dialogo nel tempo della guerra in Italia (per La nave di Teseo), ma non in Francia.

Perché lì «se si critica Israele si è immediatamente accusati di antisemitismo», ci spiega lui stesso al Lido di Venezia, dove è Presidente della Giuria di Bookciak, Azione! (evento di pre-apertura delle Giornate degli Autori, con l’adesione dei Giornalisti Cinematografici SNGCI): «Oggi la parola “palestinese” è praticamente vietata in Francia, e quando anche Jean-Luc Mélenchon ne ha parlato è stato attaccato e accusato di antisemitismo, anche se non era assolutamente questa la sua intenzione. Si può parlare dei palestinesi solo per nominare Hamas come terroristi».

Lui, peraltro, ha da subito condannato senza ambiguità gli attentati del partito islamista: «Quando l’ho fatto, non sono stato compreso dai miei amici palestinesi in Marocco [Paese di nascita dell’autore, NdA], e poi quando ho denunciato i bombardamenti contro la Palestina non sono stato compreso dai miei amici ebrei in Francia, quindi mi trovo solo perché alle persone piace il radicalismo».

Alla XIII edizione del concorso cineletterario ideato e diretto da Gabriella Gallozzi L’urlo (di cui Ben Jelloun ha parlato anche il 28 luglio assieme a Luciana Castellina nell’incontro La cultura per la pace allo spazio Confronti delle GdA) ha anche ispirato uno dei corti vincitori, Posti vuoti di Viola Folodar (ex allieva dell’Istituto Cinematografico Michelangelo Antonioni di Busto Arsizio), nell’ambito della collaborazione di quest’anno tra Bookciak e La Nave di Teseo.

Gli altri premiati dalla giuria (formata anche da Gianluca Arcopinto, Wilma Labate e Teresa Marchesi) sono Voci di libertà di Lavinia Andreini, Mezzanotte di Andrea Alfieri e Patrizia Ricchiuti, Akim’s Tea. Una storia d’amicizia di Flavio Ceccarani e Giorgio Battistelli, Ho sognato che a Milano c’era il mare di Mattia de Gennaro (per la sezione Memory Ciak in collaborazione con Spi-CGIL, LiberEtà, Premio Zavattini e AAMOD) e Pace a colori (realizzato dalle allieve detenute del carcere di Rebibbia), mentre a Metamorfosi di Paolo Pisanelli e Matteo Gherardini è andato il Premio Speciale Bookciak, Azione!.

Il tema era La pace quotidiana, ma di questi tempi a farci compagnia giorno per giorno è piuttosto il bollettino degli orrori dalle zone di conflitto armato: «L’uomo ha sempre amato fare la guerra», riflette Ben Jelloun, «e nel sistema liberale capitalista in cui viviamo produciamo delle armi e quindi le dobbiamo vendere. Quelle con cui ora gli israeliani stanno uccidendo i palestinesi vengono dagli Stati Uniti».

La guerra, prosegue, «non ha nessun sentimento, nessuna morale, nessun pensiero, semplicemente fa quello che deve fare». Ma quello che si sta consumando nella Striscia di Gaza, lo scrittore non ha paura a dirlo, è un vero e proprio «genocidio», accostabile a quello commesso ai danni dei nativi americani: «Netanyahu dice: “Continueremo a lottare fino all’ultimo palestinese”, e ripete il modello degli Stati Uniti quando si diceva “Combatteremo fino all’ultimo indiano”. A questi dirigenti politici non interessa la pace ma solo alimentare la macchina del conflitto. E così facendo alimentano un vero e proprio genocidio. In Francia questa parola non si può usare se non per riferirsi al genocidio degli ebrei. Per il Rwanda si è parlato di “guerra civile”, ora, con i bombardamenti quotidiani a Gaza, è chiaramente un genocidio ma non possiamo chiamarlo così. Questa secondo me è un’aberrazione».

D’altronde l’antisemitismo (quello vero) è un problema serio Oltralpe: «Si è sviluppata una forte aggressività nei confronti degli ebrei da prima degli eventi del 7 ottobre, dopo ci sono state circa un migliaio di aggressioni contro di loro, che non si sentono più al sicuro. La Francia è sempre stata in parte antisemita dai tempi dell’affare Dreyfus».

Nulla a che vedere, però, con una certa narrazione distorta delle proteste a favore dei palestinesi: «Oggi per la prima volta a livello mondiale ci sono manifestazioni a sostegno del popolo palestinese, a Londra, in alcune università degli Stati Uniti come Berkeley, in Spagna, in Italia, ma gran parte dei media non le hanno interpretato come manifestazioni contro la guerra e l’esercito israeliano comandato da Netanyahu ma contro gli ebrei».

A lui, invece, vengono in mente le mobilitazioni contro la guerra in Vietnam, a cui partecipava da giovane studente: «E con me c’erano intellettuali importanti come Jean Genet, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Michel Foucault: eravamo a manifestare nei viali di Parigi, e questo non ha certo causato la fine della guerra, ma le popolazioni vietnamite si sono sentite sostenute, per loro è stato importante». Perché, chiosa, la cultura (cinema compreso) «non può risolvere le questioni ma è importante che vi partecipi». Anche con gesti simbolici, come ai tempi della fatwa iraniana contro il poeta Salman Rushdie: «Al Festival di Cannes Isabelle Adjani decise di leggere una pagina del libro che era stato vietato, per mostrare che eravamo tutti solidali con lo scrittore condannato dai fanatici».

Una lezione che vale tanto più nell’attuale momento storico dove, secondo l’autore (riprendendo un’immagine analoga di Papa Francesco), «stiamo assistendo ad una sorta di guerra mondiale “sparpagliata”, in Sudan, nello Yemen, in Ucraina, a Gaza, e alcuni Paesi sono pronti a intervenire, c’è una violenza diffusa a livello globale».

In cui si avverte il peso di quella mentalità razzista e colonialista (analizzata in modo cristallino da Ben Jelloun nel suo testo più celebre) da cui ancora non ci siamo affrancati: «Il razzismo è sempre presente, l’uomo è ossessionato dal fatto che esistano altre persone inferiori a lui, in qualsiasi società». Proprio per questo va ribadito che «non esistono le razze nell’umanità. Esistono tra gli animali, tra un rinoceronte e un serpente, ma all’interno della razza umana non ci sono sotto-razze. Vado spesso nelle scuole a spiegarlo ai ragazzi e loro restano molto stupiti. Il nostro valore è determinato dalle azioni che facciamo, non dall’aspetto».

Perché «la natura ci ha creato tutti uguali, ma ovviamente con delle differenze perché ognuno di noi è unico. Da queste differenze l’uomo ha creato delle diseguaglianze, delle gerarchie, ad esempio tra uomo e donna. Non esistono gerarchie, e quando le creiamo danno luogo a situazioni di apartheid, come è successo in Sud Africa o come sta succedendo adesso in Israele con gli arabi palestinesi».