Guerra e violenza dividono, cultura e arte uniscono

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Dopo la proiezione di The President, abbiamo incontrato il regista iraniano Mohsen Makhmalbaf per approfondire le tematiche trattate dal film, i suoi motivi ispiratori e il suo approccio al cinema. Ne è uscita una conversazione stimolante.

Con The President il suo cinema assume nuovi connotati, sembra farsi allo stesso tempo più disperato e più dolce…

Io credo che la violenza distruggerà il pianeta: ed è per questo che abbiamo bisogno della cultura. Sessanta anni fa avevamo Adolf Hitler: adesso abbiamo tanti Adolf Hitler che tentano di distruggere il mondo, perché ogni persona si crea il proprio dittatore, cambiano solo gli uomini ma le figure di potere restano.

Quindi abbiamo bisogno della cultura per la sicurezza dell’umanità, perché la guerra e la violenza dividono, la cultura e l’arte uniscono. Personalmente, credo che siamo nati per essere amici, felici e vivi, è il nostro stato naturale: e non è solo il fondamentalismo religioso islamico a minacciarci. Guarda alla Palestina, per esempio, ma anche in ogni altra parte del mondo. Se non siamo amici, siamo nemici. Se non siamo felici, ci uccidiamo. Se non siamo vivi, siamo morti: il nostro stato naturale è essere felici! Ma attenzione: io rispetto ogni religione, quello che non sopporto è quando qualsiasi tipo di credo mette confini, barriere, quando fa del male al nostro essere.

In questo film ho provato a definire l’essenza dell’umanità, e a criticare la violenza e ogni tipo di rivoluzione violenta. Guarda, il potere cambia le persone, e le persone cambiano il potere: è un circolo vizioso a cui non c’è fine, una conseguenza eterna. Perciò, proteggere gli innocenti dalla violenza, da ogni violenza, è una nostra precisa e sacrosanta responsabilità.

Con The President, al contrario di altri miei film, ho provato a creare una storia che non raccontasse di questa o quella realtà specifica, il mondo è talmente pieno di violenza… ma ci sono anche delle persone buone, forse poche, che la rifiutano. Noi abbiamo la responsabilità di diffondere la cultura, di promuoverla: io come artista, come regista, tu come giornalista… è un dovere di tutti. Perché se non facciamo qualcosa, è facile che la violenza distrugga tutto, come ho detto prima. E non si può dire “ma io che posso fare, io riporto solo le notizie…”, no!, tutti abbiamo bisogno della tua notizia, della tua cultura, solo così possiamo cambiare davvero il mondo, ognuno deve fare qualcosa con la propria arte.

Vedi, è un’epoca molto pericolosa: prendi l’11 settembre, hanno fatto crollare un palazzo e guarda adesso dove siamo finiti- è stata una spirale, perché ogni violenza richiama e crea altra violenza, così come la pace richiama e crea solo la pace.

Che ruolo riveste, nel film, la musica? E, in particolare, la danza? The President sembra esserne punteggiato..

In questo film, c’è una sequenza in cui viene chiesto ad un personaggio perché sia in galera, e lui risponde “Perché suonavo”. Si sa che alcune persone, in Russia, sono state arrestate da Putin perché cantavano in una chiesa: ma anche nel mio paese puoi vedere tantissimi artisti in prigione. La musica e l’arte connettono il passato con il presente, e ci uniscono l’uno con l’altro. Io ho tentato allora di usare non solo la musica georgiana, ma anche quella del Pakistan, dell’India, di tanti paesi, per avere una sorta di connessione fra vari mondi. E poi, nella danza c’è qualcosa di più: qualcosa di allegro e triste allo stesso tempo, qualcosa di primordiale, istintivo. Nel film, sul finale, dicono “Non uccidiamo il presidente, facciamolo ballare”… È per questo che il bambino danza spesso, lui chiede solo amore. E diventa anche amico del figlio del barbiere, proprio mentre il nonno Presidente minaccia l’uomo con una pistola.

Il suo cinema sembra avvicinarsi molto a quello del Pasolini regista, specialmente per come accosta la dimensione quasi favolistica (interpretata dal bambino) e quella della violenza (resa dal nonno Presidente)…

La violenza nel mio cinema esiste perché purtroppo ne è stata piena la mia vita. Vengo da un paese pieno di violenza, fa parte della mia vita: in Iraq muore tantissima gente, per incidenti o per omicidi politici, e i miei film non possono rimanere ciechi davanti a questo.

Conosco Pasolini e lo amo, ma forse gli preferisco Fellini, per quel suo modo di raccontare così onirico, quasi irreale. Io non sono certo come lui, forse hai ragione, sono più simile a Pasolini, diciamo che mi piace stare sul limite fra reale ed irreale, come per esempio in Viaggio a Kandhar, durante la pioggia di gambe di plastica dal cielo.

Lei è da sempre un attivista dei diritti umani: può davvero il cinema cambiare qualcosa in questo senso?

Pochi anni fa la condizione della donna in medio oriente era sconosciuta nei paesi occidentali; non si parlava mai dei diritti dei bambini calpestati, e i dittatori erano pressoché sconosciuti. Oggi, invece, con il cinema, la conoscenza del mondo è aumentata e migliorata. Io, per esempio, come conosco l’Italia? Attraverso il cinema italiano! E voi, come conoscete l’Iran? Attraverso il cinema iraniano! Perché il cinema ci avvicina. Perché il cinema non ha confini.

GianLorenzo Franzì