“Chiamatemi Anna”, il bullismo e lo slancio femminista: ecco come Netflix ha rivoluzionato un classico

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La nuova versione Netflix di Anna dai capelli rossi cancella il ricordo del famoso cartoon: creata da Moira Walley-Beckett, sceneggiatrice di Breaking Bad, la serie in sette episodi Chiamatemi Anna ha un sorprendente affondo femminista: l’orfanella Anne Shirley come non l’avete mai vista prima

C’è aria di rivoluzione tra i classici della letteratura. Mentre BBC annuncia con fervore tutto britannico una mini serie di quattro ore di Casa Howard, dal romanzo di E. M. Forster, scritta dal Premio Oscar Kenneth Lonergan, e Masterpiece/PBS rilancia con un nuovo adattamento per il piccolo schermo di Piccole donne, qualcuno ha pensato bene di depistare i fedelissimi dei cliché letterari con audacia inaudita. Quel qualcuno è Moira Walley-Beckett, sceneggiatrice di Breaking Bad (di lei tutti ricordano il fenomenale episodio 14 della stagione 5, intitolato Declino) e autrice della limited series sul crudele mondo della danza Flesh and Bone. È tutta sua l’originale rivisitazione del romanzo Anna dai capelli rossi (Anne of Green Gables) di Lucy M. Montgomery, pubblicato nel 1908 e diventato un classico della letteratura per ragazzi, in Italia di solito ricordato più per il cartoon giapponese di Isao Takahata del 1979 e l’intramontabile sigla composta da Vince Tempera.

In apparenza, ogni cosa è rimasta al proprio posto anche sul piccolo schermo: l’incantevole isola canadese Prince Edward affacciata sull’Oceano Atlantico, il villaggio di Avonlea, la fattoria dei fratelli Marilla e Matthew Cuthberg, la piccola scuola in mezzo ai campi; compresi i personaggi che si chiamano come nel romanzo ma adesso, nella serie Netflix, hanno un’anima completamente diversa. Meno romanzesca e più vera. Un anno fa, nell’annunciare la serie in 7 puntate, la showrunner Walley-Beckett aveva detto: “il nuovo Anne With an ‘E’ (da noi: Chiamatemi Anna) sarà una fuga dal romanzo per raccontare altro”. Una fuga in grande stile visto che già nelle scene iniziali del primo episodio, della durata di 90 minuti e diretto da Niki Caro (prossimamente in sala con The Zookeeper’s Wife), assistiamo a qualcosa di impensabile: il vecchio Matthew Cuthberg (R.H. Thomson) in sella a un cavallo lanciato a tutta velocità sulla spiaggia in cerca dell’orfanella. Altro che calessino e aria mite, come nel romanzo. E non sarà la sola sorpresa.

La protagonista Anne Shirley, giunta da un orfanotrofio della Nuova Scozia con un passato che intende dimenticare, non ha perso un grammo della effervescente personalità letteraria. I capelli rosso carota e il mare di lentiggini stazionano ancora sul suo volto, e l’eloquio ricercato, il delizioso piacere derivato dalle parole (perfino del suo nome che è più bello se pronunciato con la “e” finale) fanno dell’orfana una perfetta anti-eroina televisiva. Tipologia per la quale qualcuno ha tirato in ballo nientemeno che la Hannah Horvath di Girls. A prestarle il volto e il fisico sottile è la quindicenne irlandese Amybeth McNulty (Morgan, al cinema) che l’ha spuntata su oltre 1800 aspiranti al ruolo dopo aver superato un paio di provini a Toronto. I suoi capelli biondi sono stati trasformati nel rosso d’ordinanza del personaggio e nelle immagini di scena rilasciate nei mesi antecedenti la messa in onda, a marzo sulla rete canadese CBC, vederla con in testa quel buffo e sfilacciato cappellino è sembrato un grandioso omaggio alle cover delle prime edizioni del romanzo.

Di Anne Shirley, Moira Walley-Beckett ha fatto una sognatrice serissima. Ideale per la nuova generazione di telespettatori. Fin dalle prime puntate si direbbe che il romanzo sia stato rispettato religiosamente, ma poi ecco l’azzardo: Anne spiega a Marilla (una magnifica Geraldine James, la Mrs. Hudson in Sherlock Holmes) che le “ragazze possono fare le stesse cose dei maschi, e anche di più”. Femminismo era parola impronunciabile nell’epoca in cui è ambientata la storia di Anne. Per stornare i personali propositi di assoluto realismo sul periodo storico descritto, Moira Walley-Beckett ha quindi evocato un “accidentale femminismo”. Un feeling non più tenuto segreto che sulla scena esplode grazie al carattere e alla smaccata intelligenza e curiosità della protagonista, alla quale è stato aggiunto qualche anno in più rispetto al romanzo: ora è una tredicenne riflessiva, impulsiva, onesta ma con i suoi piccoli grandi traumi.

Moira Walley-Beckett, che si definisce una scrittrice dalla sensibilità un po’ cupa, e orgogliosa di esserlo dal punto di vista creativo, ha cercato un approccio congeniale per avvicinarsi alla “sua” protagonista, raccontando la storia di una ragazzina ferita, desiderosa di far parte disperatamente di un vero nucleo familiare. Dove poter dare libero sfogo alla fantasia e mostrare senza pentimento la sua anima libera. Per esempio: nella serie, i tremendi flashback sul suo passato mostrano una ragazzina vittima di abusi, bullismo e pregiudizi. Temi attualissimi che scorrono in parallelo ad altri sollevati dalla serie, quali la pubertà, la parità tra uomo e donna, l’idea di matrimonio, l’essere isolati nella società. Un alibi sorprendente che è servito ad approfondire anche i personaggi minori: il compagno di scuola Gilbert Blythe non è così detestabile come descritto nel romanzo, l’amica Ruby Gillis è una sciocchina che si sbrodola divertita ad ascoltare le fantasiose girandole verbali di Anne, il bracciante Jerry Baynard potrebbe risiedere benissimo in un romanzo di Charles Dickens, e guai a dimenticare i fratelli Cuthberg per i quali Moira Walley-Beckett ha appositamente scritto nuove storie per svelarne il passato. Talvolta con risvolti perfino inquietanti, come vediamo succedere nella drammatica season finale.

Girata a partire dallo scorso settembre in Ontario con poche location sull’isola Prince Edward (la scena iniziale sulla riva del fiume ad Alexandra, vicino Stratford), Chiamatemi Anna è stata interamente scritta da Moira Walley-Beckett, che ha riservato a se stessa un minuscolo cameo senza proferire parola proprio nell’ultimo episodio di stagione. Come già accaduto in Flesh and Bone i titoli di testa della serie sono un inno visivo alla fantasia e all’indole sognante di Anne e sono stati realizzati dall’artista Brad Kunkle. Intimamente femminile la serie Netflix lo è anche dietro le quinte. Oltre alla regista Niki Caro, a dirigere gli altri episodi si leggono i nomi delle attrici Helen Shaver e Amanda Tapping, quest’ultima impegnata nel 2016 su diversi fronti, compresa un’altra serie Netflix, Travelers. Moira Walley-Beckett firma e produce insieme a Miranda de Pencier che da giovane interpretò l’antipatica Josie Pye nell’altro famoso e molto fortunato serial dedicato ad Anne of Green Gables, realizzato nel 1985 da Kevin Sullivan con Megan Follows nel ruolo principale. Rispetto a quel classico della televisione canadese, Walley-Beckett ha detto no alle location lussureggianti e ai costumi sontuosi con le maniche a sbuffo, rispondendo con rigoroso realismo per mostrarci come si viveva davvero nel 1890 in una piccola regione del Canada. Dimostrandosi perfino autoritaria nelle scelte che si interfacciano alla prosa struggente, e intimamente moderna, di Lucy M. Montgomery grazie a preziose citazioni ripigliate da Jane Eyre e addirittura da George Eliot. Assenti nel romanzo, ma inestimabili nella formazione giovanile della scrittrice. Vivere eroicamente ai margini della poesia diventerà tra l’altro una vera e propria impresa per Anne: in un episodio della serie, la showrunner l’ha voluta collocare nella sala di attesa di una stazione ferroviaria facendole recitare alcuni brani di poesie per racimolare qualche spicciolo. La fatica di essere orfani…

Chiamatemi Anna, che Moira Walley-Beckett vorrebbe sviluppare per almeno altre quattro stagioni soltanto basate sul primo romanzo, è infine una sberla in faccia all’altro Anne of Green Gables attualmente in circolazione. Ci riferiamo ai due film per la televisione di 90 minuti trasmessi sempre su CBC e realizzati con il beneplacito degli eredi della scrittrice che vedono un’altra attrice quindicenne, Ella Ballentine, nei panni della protagonista e uno spaesato Martin Sheen in quelli di Matthew Cuthberg. Una versione vagamente fedele al romanzo, ipoglicemica, dove la poesia e la gioia di vivere sembrano quasi un’esclusiva dell’orfanella.

Mario A. Rumor

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